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Parkinson, "monoclonali decisivi". Gli studi rivoluzionari dell'Irccs San Raffaele Uno

I monoclonali potrebbero far bene anche ai malati di Parkinson. A dirlo è Fabrizio Stocchi, il direttore del Centro Parkinson e Parkinsonismi dell'Irccs San Raffaele. Uno, Stocchi, che non parla a vanvera: assieme ai suoi, infatti, sta «conducendo degli studi con gli anticorpi monoclonali per cercare di bloccare la proteina infettante che causa la malattia, la alfa-sinucleina».
Oggi non è una data qualunque: è la giornata mondiale dedicata al Parkinson, una patologia neurogenerativa progressiva che sottovalutare sarebbe un errore. A livello planetario è la seconda più diffusa dopo l'Alzheimer. Da noi, in Italia, ne soffrirebbe almeno mezzo milione di persone, ma anche far di conto è difficile: primo perché non esistono dati certi e, quindi, ci si affida alle stime sul consumo di farmaci. E secondo perché, nel computo, influisce pure il numero di esenzioni e attestazioni dell'Inps (l'Istituto perla previdenza sociale). Gli oltre 500mila malati vengon fuori tirando le somme e sono una cifra in costante crescita.
Non è il migliore degli scenari possibili, però (sul fronte della terapia, così come su quello della ricerca), qualche buona notizia, c'è. E ci si affida a quelle, dopotutto due anni di pandemia ce l'hanno mostrato chiaramente: senza la scienza, senza il progresso della medicina, non si va da nessuna parte. «Per i pazienti esistono delle buone terapie sintomatiche», spiega Stocchi. Partiamo da qui, cioè dai due trial più importanti che sono in corso presso l'istituto romano del San Raffaele: uno con un anticorpo monoclonale somministrabile per via endovenosa e l'altro per via orale. Entrambi funzionano nello stesso modo: vanno a bloccare la proteina "alfa-sinucleina" nel momento in cui si trasferisce da una cellula all'altra. «Per quanto riguarda il primo studio emergono segnali promettenti», specifica subito il dottore, «in merito alla buona tollerabilità del farmaco. Nel corso della seconda fase sono stati evidenziati elementi positivi rispetto alla sua capacità di modificare il decorso della malattia». Che non è la panacea di tutti i mali, però è una buona base di partenza: «Ora», prosegue Stocchi, «lo studio è giunto alla sua terza fase e ha l'obiettivo di dimostrare che l'anticorpo monoclonale rallenta la progressione del Parkinson».
Hai detto poco. Inoltre: «I pazienti possono essere trattati meglio con dei farmaci che migliorano la somministrazione della levodopa (un amminoacido che viene utilizzato per il trattamento della malattia, ndr) in maniera più continua». La ricerca, in questo specifico campo, è fondamentale perché il Parkinson, a oggi, è una delle cause più frequenti di disabilità, in particolar modo tra gli anziani. Chi ce l'ha, purtroppo, sa bene cosa vuol dire: disturbi di tipo motorio, come la bradicinesia (ossia la povertà e la lentezza dei movimenti), il tremore a riposo, la rigidità, la postura in flessione e l'andatura strascicata. Ci possono essere anche deficit nell'equilibrio. «La terapia», conclude il neurologo, «non può prescindere dall'approccio farmacologico che deve essere associato a un mirato trattamento riabilitativo occupazionale, logopedico e neuromotorio». E se è pure "personalizzato" (come fanno al San Raffaele, grazie all'uso di robot e tecnologie all'avanguardia), tanto meglio.

di Claudia Osmetti 

Video editing Alessandro Barnaba

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