Albania, "perseguitati perché gay". Ma per i 43 migranti è impossibile da provare
Torneranno dunque tutti in Italia, già questa mattina, i 43 bengalesi ed egiziani trattenuti nel centro di permanenza di Shengjin, in Albania, che avevano fatto domanda di «protezione internazionale». Senza fare grande fatica, è stato sufficiente per loro dichiarare, durante l’udienza ieri mattina in videoconferenza, di essere stati vittime di aggressione per il proprio orientamento sessuale o di non meglio precisate minacce, entrambi impossibili ovviamente da verificare, per ottenere lo stop immediato al provvedimento di espulsione. Con una serie di provvedimenti “stampone", i giudici di Roma hanno quindi creduto ai racconti dei migranti e fatto così a pezzi la decisione della Commissione territoriale del Ministero dell’Interno che aveva bollato come infondate e pretestuose le loro domande di protezione internazionale.
Per la Commissione territoriale si trattava infatti di «migranti economici» alla ricerca di una migliore qualità di vita in Italia, essendo provenienti da Paesi, come appunto il Bangladesh e l’Egitto, ritenuti sicuri dal governo italiano. Grazie sempre alla ormai stranota pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea dello scorso anno secondo la quale invece nel pianeta non esistono Paesi sicuri, il provvedimento di espulsione nei loro confronti è stato allora sospeso. Poiché «per effetto della sospensione è impossibile osservare il termine di quarantotto ore previsto per la convalida» del trattenimento, «deve necessariamente essere disposta la liberazione del trattenuto», si legge nelle 25 pagine della sentenza della Corte d’Appello di Roma. Una decisione, va ricordato, scontata e che conferma l’esito già espresso dei due precedenti sbarchi, il 16 ottobre e l’8 novembre scorsi. Ad esprimersi, in quella occasione, erano stati i giudici della sezione immigrazione del Tribunale di Roma, la cui competenza in materia di diritto d’asilo era stata poi trasferita con decreto del governo alla Corte d’Appello.
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Trasferimento solo sulla carta, dal momento che il presidente della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Meliadò, a differenza del suo collega milanese Giuseppe Ondei, aveva disposto l’applicazione degli stessi giudici della sezione protezione internazionale del tribunale. I 43 migranti, 35 dal Bangladesh e otto dall’Egitto, erano stati condotti martedì mattina da Lampedusa a Shengjin a bordo dell’incrociatore Cassiopea della Marina militare. Inizialmente il gruppo era composto da 49 persone. Dopo essere stati sottoposti a un approfondito check up sanitario, contestato da alcuni parlamentari del Pd, da parte dei medici militari, cinque migranti (tre del Bangladesh, due del Gambia e un ivoriano), avevano fatto rientro già giovedì in Italia per degli approfondimenti clinici. Come detto, nei confronti dei 43 migranti la Commissione territoriale per il diritto d’asilo aveva negato per «manifesta infondatezza» la domanda di protezione. Tornati in Italia, scatterà adesso per tutti la procedura ordinaria che comporterà, considerate le tempistiche, la sostanziale impossibilità di procedere un domani alla loro espulsione in caso di rigetto dell’istanza.