Kobe Bryant, Filippo Facci: "Un mondo idiota che ci può portare via il suo ricordo"
Adesso siamo tutti Kobe Bryant. È scattato il millesimo meccanismo di cordoglio collettivo a costo zero (basta un click) ed è sorprendente scoprire quanti fossero, ben nascosti, gli appassionati di basket Nba in Italia: questo considerando che le partite le trasmette solo un canale satellitare a pagamento. Non c'è solo il tweet di domenica sera (con gaffe) dello staff di Lucia Borgonzoni: ieri anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha ricordato il campione di basket statunitense morto per un incidente due giorni fa a Los Angeles; il pretesto ci stava, perché Bryant studiò e crebbe in Italia, ma è chiaro che Mattarella ha annusato l' aria. E, nell' aria, non c' era soltanto il vecchio adagio secondo il quale c' è bisogno che una persona muoia per riconoscerne i meriti; ora è diverso, perché a quanto pare c' è bisogno che una persona muoia per apprenderne la semplice esistenza. Dopodiché può scattare la dinamica di solidarietà virale (tweet, like, cuoricini e «rip», alias riposi in pace) che supera anche il celebre «effetto Diana Spencer» del 1997, quando la morte di una principessa perlopiù conosciuta per i gossip raccolse un' impressionante solidarietà mediatica e popolare; ma Diana, almeno, la conoscevano già tutti, ci sta. Ora è diverso, perché il «siamo tutti Caio» è diventata una moneta gratuita da spendere così, tanto per non sbagliare. Leggi anche: Kobe Bryant, lo sfregio di Rachel Wood CONFORMISMO Non si tratta del «siamo tutti americani» che serviva per dare consapevolezza dell' attacco all' Occidente, al nostro modo di vivere; e non è neppure il già più controverso «Je suis Charlie» che doveva farci capire che la libertà di espressione è tutto, anche quando le opinioni divergono. È cominciata, in seguito, un' altra cosa, una forma di fastidioso conformismo informatico a comando. Qualcosa che non celebra, non unisce o non per davvero, bensì banalizza e appiattisce ogni icona. Siamo tutti Kobe Bryant a patto di non sapere chi fosse, siamo alla trasfigurazione di un personaggio fittizio, chimerico. Me ne sono accorto - nota personale - quando domenica sera, fottendomene allegramente dei risultati elettorali, seguivo solamente le notizie su Bryant e ho fatto un post su Facebook: infiniti cuoricini e solidarietà, troppa roba, qualcosa già cominciava a non quadrare. Lunedì sera, invitato a Sky a commentare gli esiti elettorali in un notiziario che parlava anche di Bryant, mi veniva spontaneo commentare la sua morte: forse perché avevo seguito l' ascesa di Bryant per tutta la sua carriera professionale, e perché il basket è stato lo sport che ho praticato sin da adolescente, sinché il fisico ha retto; ma non ho commentato, perché ho visto che, dopo di me, in studio avrebbe parlato Davide Pessina, un cristone di 2.06 che giocò da professionista e che ora è un bravo telecronista di basket proprio a Sky. A ognuno il suo, pensavo. Non avevo capito niente, non avevo capito che Bryant ormai apparteneva a chiunque, era stato già arruolato nell' immaginario mediatico che in fondo ti chiede solo di avere i requisiti giusti per la loro deformazione: nel caso, Bryant - che per me era anzitutto un dio del pallone da basket - era bello, aveva una bella faccia, era nero, aveva delle belle figlie nere - una è morta con lui, a perfezionare la mestizia - ed era una persona sicuramente intelligente e interessante, questo in un ambiente dove il più colto è un troglodita. IL RITIRO Bryant era uno che, dopo il ritiro, non ha smesso di esistere e ha fatto un sacco di altre cose. Sul web, poi, ho provato a postare una bella foto di Bryant che se ne va e saluta rivolto alle telecamere: moltissimi «like». Poi ho postato un video degli ultimi tre minuti dell' ultima partita della carriera, dove ribaltò il risultato letteralmente da solo e fece 60 punti: ma ecco, molti meno like e contatti. Chiaro. Ovvio. Non era più un giocatore di basket. Non si parlava più di sport. E uno può dire: d' accordo, ma qual è il problema? Che male fa tutto questo? Di male fa - risposta - che quella cosa, quella persona celebrata dall' effimero «web», non è già più lui, è un altro. Vogliamo farci capire? Tempo fa, Kobe Bryant venne arrestato perché una diciannovenne l' accusò di averla violentata; lui confessò di aver avuto un rapporto sessuale con lei, ma negò la violenza dicendo che fu consensuale, e pagò 25mila euro di cauzione. Andò sotto processo sinché le accuse non furono ritirate, non sappiamo in base a quale genere di accordo. Bryant perse contratti (anche con Adidas e con la Nutella Ferrero) sinché la cosa si perse nell' oblio, anche perché parliamo del lontano 2003. METOO Ora immaginatevi, in tempi di conformismo «Metoo», che cosa sarebbe successo se la cosa fosse stata un po' più recente. Anzi, non serve immaginarlo: ieri una giornalista del Washington Post si è permessa di riprendere un articolo di tre anni fa (scritto da altri) titolato «Il caso dello stupro di Kobe: la prova del Dna, la storia dell' accusatrice e la semi-confessione». E, l' hanno licenziata. Sì, licenziata: congedo amministrativo. Motivazione ufficiale: «I tweet di Felicia Sonmez mostrano un errore di giudizio che ha minato il lavoro dei suoi colleghi». Al che la giornalista ha scritto, prima di salutare: «Alle 10mila persone che hanno commentato e scritto mail con insulti e minacce di morte, prendetevi un minuto e leggete il pezzo, scritto oltre tre anni fa e non da me. Ogni figura pubblica andrebbe ricordata nella sua totalità, anche quando è amata da tutti». L' attrice 32enne Evan Rachel Wood, di rimando, ha replicato: «Ho il cuore spezzato per la famiglia di Kobe. Era un eroe dello sport, ma era anche uno stupratore. E tutte queste verità possono esistere contemporaneamente». Tante verità, nessuna verità. Siamo tutti Kobe Bryant, e nessuno lo è. Siamo tutto, anzi, non siamo niente. Chi ha amato e conosciuto le gesta di Kobe Bryant ne tenga stretto il ricordo, prima che questo mondo idiota glielo porti via. di Filippo Facci