Cerca
Cerca
+

Sanremo 2025, Elodie contro Meloni? Al Festival non sono mai soltanto canzonette

Marco Patricelli
  • a
  • a
  • a

 Sono canzonette, ma non solo canzonette. Da sempre ci si mette dentro quello che è spacciato per altro e ci si trova quello che magari non era neanche nella mente degli autori, in un gioco degli inganni in buona e cattiva fede. Che Sanremo sia anche “politica” può stupire solo chi cade dal pero, pretende neutralità e contraddittorio come sul bilancino dello speziale.

E' dagli antichi greci che il palcoscenico del teatro – e l’Ariston, che porta un nome greco, perché dovrebbe fare eccezione? – serve per fare il controcanto al potere o, attraverso l’ironia, disegnare i vizi dell’uomo, tra i quali anche e soprattutto quello del potere. I romani, vedi il frizzante ma elegantissimo nell’irriverenza Tito Maccio Plauto, non facevano sconti, e non sarà un caso che le sue commedie vanno in scena da duemila anni e ci andranno ancora perché sembrano scritte oggi. La commedia ha sempre avuto un successo strepitoso, persino nel suo ridimensionamento giullaresco di versi e musica alla corte dei potenti, un po’ come accade per la platea televisiva di oggi ammaliata dalle sirene sanremesi e da tutto l’ambaradan che ruota attorno. E che dire del teatro, quello serio, e del melodramma? Non sarebbe immaginabile il Risorgimento senza Giuseppe Verdi, che la sorte volle con un cognome-acronimo subito sviluppato in Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia.

 

ALTRI TEMPI, ALTRI PERSONAGGI

Il «Va’ pensiero» era un coro di schiavi e ci si vide l’Italia in catene. La retorica fece tutto il resto, i Savoia ci misero l’esercito, Cavour le sue trame ed eccoci qua con l’Inno di Mameli. Altri tempi, altri personaggi, altre carature. E nel piccolo e nel disimpegnato, il festival della canzone italiana, diventato contenitore di idee, genialate, pagliacciate e provocazioni per far parlare di sé, non fa eccezione, perché è lo specchio dei tempi e delle sue contraddizioni.

La colomba bianca di Nilla Pizzi spiccò il volo nel 1952 dal palco della città dei fiori con l’alloro nel becco, ma ci mise due anni ad atterrare a Trieste con il tricolore. Tutti in quei versi con quella musica rétro ci sentirono l’anelito della città alabardata a ricongiungersi alla madrepatria. Fu vera gloria? L’Italia con i sottintesi e i doppisensi ci ha sempre sguazzato, soprattutto quando era meglio non dire, ma alludere. Le chiamarono “Le canzoni della fronda”, e la miope e paranoica censura fascista ci collezionò topiche a ripetizione.
Il Pippo che quando passava faceva ridere tutta la città, si credeva bello come un Apollo ma saltellava come un pollo era davvero Achille Starace messo alla berlina? Guai seri li passò pure Mario Panzeri perché quel “Maramao perché sei morto” alludeva a Costanzo Ciano, eroe di Buccari e padre del generissimo di regime Galeazzo.

L’autore si salvò in corner dimostrando di aver scritto quella canzone prima dell’illustre dipartita. Che “Crapa pelada” di Gorni Kramer fosse proprio il “Crapùn” in orbace non c’erano invece dubbi, ma lo stesso Panzeri ci ricascò con la sua “Banda di Affori”, con 550 pifferi e il tamburo principale di chiara individuazione. Altro stile il Renato Rascel di “E' scoppiata la bufera”, alle prime nuvole nere sull’Europa del 1939. Come poteva, quindi, la vetrina della canzone italiana del dopoguerra rimanere immune da contaminazioni? E infatti non lo è stata, anche se la raffinatezza d’antan è diventata spesso grana grossa, che oggi è palese ricerca di schieramento e di attacco autolegittimante.

Altro che allusioni, ricercatezze e doppi sensi, invenzioni per aggirare con stile le barriere materiali e mentali su società, costume, sesso, religione e ovviamente politica. Il “ragazzo della via Gluck” di Celentano era un atto d’accusa alla cementificazione urbana, all’abusivismo e al saccheggio degli spazi verdi negli Anni ’60, mentre Pierangelo Bertoli già puntava l’indice su quella che sarebbe stata tangentopoli con “Italia d’oro”, tematica riproposta con efficace corrosività e sempre negli Anni ’90 da Elio e Le storie tese in “La terra dei cachi”.

 

PISTOLOTTI COME RIVELAZIONI...

E sempre politica era “Il Paese è reale” degli Afterhours, anno 2003, cruda ed esplicita anche nell’aggettivazione, e “Non è l’inferno” di Emma, del 2009. Ma c’era già stato Giorgio Faletti, comico proposto come cantante-parlante, con “Signor Tenente” nel 1994, da brividi. Niente a che vedere con i calci alle fioriere da Tso, i litigi plateali, lui che bacia lei che bacia lui che ribacia lui, e neanche con i pistolotti annunciati come rivelazioni dei segreti di Fatima e osannati come espressione della cultura italiana, ridotta davvero male se fosse davvero così. La macchina festivaliera va avanti anche con questa benzina di contrabbando, che fa qualche fiammata imprevista o già sul copione, illumina all’improvviso di luce artificiale e a volte si spegne come un fuoco fatuo.

Il bravo presentatore Carlo Conti, da autentico direttore d’orchestra, preferirebbe che nessuna delle prime o delle seconde parti stonasse, stridendo sulla partitura nazionalpopolare, ma in fondo un po’ ci spera perché poi di questo si parla molto più di una melodia accattivante o di un’armonizzazione originale che vada oltre tonica-dominante-tonica. Sono canzonette usa e getta, pochissime diventeranno classici, e Sanremo non è un Canzoniere petrarchesco.

Dai blog