Claudio Cecchetto, intervista verità: "Vi dico tutto su Jova, Fiorello, Amadeus e Scotti"
«“Purtroppo non è più possibile fare radio come una volta”. Me lo dicevano nel 1982, quando fondai Radio Deejay. Oggi mi ripetono esattamente la stessa cosa». Chi parla è Claudio Cecchetto, 64 primavere, re dei talent scout, architetto della radiofonia italiana tra gli anni ’80 e i ’90. O forse ancora prima, quando dalle frequenze della memorabile Radio Milano International e di Studio 105 trasformava le sue intuizioni in trasmissioni destinate a fare storia. A distanza di anni, è sufficiente uno zapping veloce tra i principali network per capire che di Cecchetto, in Italia, ne è passato uno soltanto. Il modo di concepire e vivere l’intrattenimento radiofonico nel 2016 non è poi così diverso da quello con cui diede vita alla sua straordinaria avventura nella radio di via Massena: «In giro c’era il nulla. Ebbi coraggio, ma anche fortuna. Ossia tanti soldi da investire senza dover pensare da subito ai guadagni. Arrivarono dal contratto appena firmato con la Fininvest di Silvio Berlusconi».
Andiamo verso una stabilizzazione, verso un appiattimento totale?
«I big sono sempre gli stessi. Spesso mi chiedono come mai non si vedano in giro nuovi Fiorello o Gerry Scotti. Guarda caso, i nomi che vengono fatti provengono tutti dalla stessa radio. Dalla mia Radio. Non è che in giro non ci siano nuovi Fiorello. Un tempo venivano fuori perché andavo a cercarli io, con la mia organizzazione. Manca una persona che abbia testa, coraggio e intuizioni giuste. Se cerchi un grande artista, devi adeguarti a quello che vuole fare lui, sgomberare il campo, stimolarlo a fare meglio».
L’errore più marchiano, più ricorrente?
«Nel mondo della musica e dei talent si vuole tutto e subito. Invece ogni cosa ha bisogno del suo tempo».
StarCube, l’anti talent su cui lavori, è una risposta a tutto questo?
«Più andiamo avanti, più i tempi sono maturi per questo tipo di prodotto. In StarCube il fatto che tu abbia o no una bella voce viene dopo. Prima mi dimostri di essere nato per fare questo lavoro, poi ti ascolto».
C’è chi storcerà il naso.
«Ma come la mettiamo con quest’invasione di personaggi sfornati in prima serata che nel giro di poco tempo scompaiono dai radar? Dipende dalla direzione che scegli, dalle scelte che fai, qualche volta dalla fortuna. Potrei indossare un cappello a cilindro e salire sul palco e qualcuno potrebbe dirmi che mi dona. O, chiaramente, bollarmi come un cretino. Il rischio di distinguersi non lo corre più nessuno».
Un normodotato con tenacia e spirito d’iniziativa può ambire al successo?
«Quello che fai è abbinato all’immagine, credo che essa sia imprescindibile. Con questo non voglio dire che un buon prodotto musicale non debba esserci. Puoi distinguerti per una espressione del viso, per il modo di porti. Jannacci e Gaber incuriosivano il pubblico con il loro atteggiamento».
L'industria musicale italiana è ormai alla canna del gas.
«Siamo in ottima compagnia. E' la discografia, in generale, che naviga in cattive acque, la musica non di certo. L'espediente di auto prodursi via YouTube è un fatto. Prima le persone da cui passare per pubblicare un disco erano troppe. Oggi sono troppe le persone che tentano la via di Youtube e di internet».
Impennata del vinile: solo una moda per romantici?
«È un supporto antico, obsoleto e scomodo. Dopo tanta curiosità iniziale, anche i giovani, senz'altro incuriositi, alla fine mollano il colpo. Parlare di ritorno del vinili mi fa sorridere. Se è per questo, c'è anche il ritorno dei francobolli: ma cosa facciamo, torniamo a spedire le lettere?».
Si cerca spesso nel passato una credibilità che oggi evidentemente manca.
«Non credo che in giro ci sia tutta questa voglia di passato. Sono i vecchi attori che sfruttano il repertorio di un tempo. La mia Deejay Parade, per dire, non è tornata con al timone dei nuovi ragazzi. Il ritorno lo hanno deciso i vecchi attori, non il pubblico. E' diverso».
Hai diretto la Rtl degli albori: del loro successo che pensi?
«Abbiamo una visione di intrattenimento radiofonico radicalmente opposta. Resta comunque una buona radio di servizio, quello che non è stata capace di essere in tutti questi anni la Rai. Oggi il vero servizio pubblico lo fa Rtl. I numeri lo dimostrano».
Dai tuoi artisti hai ottenuto sempre ciò che ti aspettavi?
«Sempre. Ho scritto Gioca Jouer e sono arrivato al numero uno. Mi sono messo in gioco come produttore e sono arrivato primo con tutti i miei artisti: da Sandy Marton a Tracy Spencer. E poi gli 883, Fiorello, Jovanotti... Con le Radio, idem».
Ci sono stati artisti che ti sei lasciato scappare?
«Credo di non essermi lasciato sfuggire nessuno che poi sia arrivato alle stelle. La prima parte della mia carriera l’ho impostata su successi one shot. Più passavano gli anni, più riflettevo sul fatto che sarebbe stato stimolante seguire gli artisti in maniera diversa, magari attraverso la pubblicazione di album. La seconda fase andò in quella direzione: la inaugurai con Jovanotti».
Siete molto legati, è anche il padrino di tuo figlio Jody.
«Quello che fa è il frutto degli anni in cui abbiamo lavorato insieme. Da quando lo conosco, non si è mai fermato: resta il più grande artista italiano. Non il più grande cantante, ma il più grande artista. Stesso ragionamento per Fiorello: non il più grande dei presentatori, ma il numero 1 tra gli showman in Italia».
Non esprime al 100% il suo enorme potenziale, hai detto. Questa settimana è tornato con L'Edicola su Sky...
«Potrebbe fare di più, ma non vuol dire che il suo operato sia insufficiente. Per me, se vali mille, domani puoi valere duemila. E così all’infinito. Ad ogni modo, Fiorello va dove ci sono personaggi innovativi, non gestori. È un “giovane” che ama circondarsi delle idee dei giovani. In questo siamo identici».
Amadeus si alzava ogni mattina alle 4 per essere da te in radio.
«L’amico che lo ospitava a Milano non esisteva. Prendeva il treno da Verona, raggiungeva la radio con i mezzi pubblici. Fu Vittorio Salvetti a presentarmelo. Il palinsesto del mattino era perfetto per lui. Voce calda, il sorriso di default, lo show nell’anima. Soprattutto, la voglia di restare “acceso” anche quando non lavorava. Questo, in lui, ha fatto la differenza».
Con Sandy Marton hai condiviso successi, vacanze, notti folli.
«“È il compleanno di Gori, proprietario del Ku di Ibiza. Ci aspetta”, disse una sera piombando nel mio ufficio. Presi gli occhiali da sole e lo seguii su un aereo privato. Di quella festa al Ku ricordo i fiumi di sangria. Ma soprattutto, la bellezza di Alicia, una ragazza che avevo conosciuto un anno prima. Quella notte mi aveva messo gli occhi addosso, mi permise di accorciare le distanze. Fu un’avventura esaltante. “Ibiza fa bene”, sorrise Sandy, quando glielo raccontai la mattina dopo mentre tornavamo a Milano, “o forse è stata l’ecstasy nella sangria”. Scoppiamo a ridere. Quello dell’ecstasy fu chiaramente un episodio isolato. In certe circostanze, ho sempre saputo cavarmela da solo (ride, ndr)».
Anche con Milly D’Abbraccio hai condiviso una vacanza a Ibiza.
«Ancora al Ku. Un tuffo dalla parte sbagliata, nemmeno un metro d’acqua. Uscii dalla piscina insanguinato, ignaro della mia condizione per via della botta presa. Ricordo col sorriso le urla di Milly, lo slalom al pronto soccorso, il suo spagnolo improbabile. Per mia fortuna, esagerava: 5 punti di sutura e a casa. Mi fece saltare comunque ore di fila. Milly è un uragano, una forza della natura».
Sandy ha detto: “La mia fortuna è stata conoscere Claudio Cecchetto”. La tua qual è stata?
«Aver conosciuto delle persone che mi hanno fatto vedere da che parte andassero i miei sogni. Penso a Mike Bongiorno, il mio talent scout. Cercava facce nuove per Telemilano 58. Quando mi dissero che voleva parlarmi, non ci credevo. “Il tuo stile mi piace, ho ascoltato una mattina il tuo programma, sai?” disse. Mai andato in onda di mattina in vita mia. Qualche anno più tardi glielo confidai. “Ho fatto comunque una gran scelta, no?”, rispose. Telemilano è stata una palestra eccellente per il futuro provino per Discoring, dove gli altri partivano da zero».
“Sarai il mio erede”, ti diceva.
«La cosa mi gasava. Ma i fatti hanno dimostrato che ai quiz preferivo la musica. Aver lanciato Gerry Scotti, suo vero erede, mi ha rasserenato. Avevo trovato a Mike un successore più forte di me».
Il momento più folle?
«La conduzione del primo Sanremo, nel 1980. Gianni Ravera, organizzatore del Festival, era reduce da un’edizione precedente disastrosa. Una Caporetto. Aveva deciso di cambiare tutto. Prendere come presentatore un disc jockey, peraltro in Rai da 3 mesi, cos’era, se non una rivoluzione? Mi scelse come kamikaze. Andò alla grande per 3 anni di fila. Se non avessi firmato per Canale 5, la conduzione sarebbe continuata».
Il coraggio sembra una costante nella tua vita.
«Un professore alle superiori mi disse: “La paura e il coraggio non coesistono. Se riesci a sostituire la paura con il coraggio, la prima svanisce”. Aveva ragione».
Al passato ci pensi mai?
«Mi fa tornare in mente cose belle, ma anche rimpianti. E siccome non ho voglia né di nostalgie né di rimpianti, guardo avanti. È il mio segreto, la mia ricetta, qualche volta la mia via d’uscita».
Tua moglie è il vero punto fermo della tua vita.
«Sono uno che cambia spesso, che si annoia subito. L’unica cosa non ho cambiato è Mapi. È un risultato eccellente, il più importante. Lei fa la mamma, io osservo i nostri Jody e Leonardo da lontano, facendo finta di niente. Ma entrambi sanno bene che per loro ci sarò sempre».
L’impressione è che la cosa sia reciproca.
«Sono agitato per indole. La certezza di potermi lanciare in nuove avventure professionali parte da loro tre. Sapere che quel legame è indissolubile mi rende più forte. La mia speranza è che le condizioni per continuare a fare le cose faccio al meglio non vengano mai meno. A ciò che verrà, non ci penso».
Meglio la sorpresa di una cosa bella. Di un grande o di un piccolo imprevisto.
«La vita mi ha regalato soddisfazioni inimmaginabili. Sono diventato un personaggio pubblico per caso. Il desiderio più grande era fare il talent scout, produrre dischi, dirigere radio importanti. Si è avverato tutto. Non potrei essere così presuntuoso da aspettarmi qualcosa di ancora più grande. Non ricordo situazioni in cui ho pensato di dover abbandonare le miei passioni, di dovermi dedicare per forza a qualcos’altro per sopravvivere. Credo che sia stato uno dei doni più grandi che la vita mi abbia fatto. E non smetterò mai di esserle grato per questo».