Alessandra Moretti, per lei Matteo Renzi rottama le primarie del Pd
Ganze da morire quando Matteo Renzi aveva bisogno di un ascensore che lo portasse ai piani alti del Pd, a sinistra le primarie sembrano avere già perso la spinta propulsiva. Al capo garbano sempre meno, non senza ragioni. In Emilia-Romagna, dove la tentazione di non farle era stata forte, alla fine si sono svolte e il risultato è stato il minimo storico di partecipazione: -85% rispetto al 2013. In Calabria il candidato renziano Gianluca Callipo, amico del premier, è stato testé asfaltato dal dalemian-bersaniano Mario Oliverio. E poi c'è sempre il rischio che vada a finire come a Roma, dove la mitica «scelta dal basso» ha prodotto un sindaco come Ignazio Marino, spina nel fianco dei romani e del partito. Gioie poche, rogne tante. Marcia indietro ufficiale sulle primarie non si può fare, per ragioni di faccia e di articolo 18 (quello dello Statuto del Pd, stavolta: «I candidati alla carica di Sindaco, Presidente di Provincia e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coalizione»). In attesa che Renzi provi ad abolire anche questo, dalle sue parti si ragiona su come aggirare la norma in modo surrettizio. A partire dal prossimo grande appuntamento: quello delle elezioni regionali del Veneto, in agenda per la primavera del 2015. Il nome giusto per sconfiggere Luca Zaia, governatore uscente, Renzi ce l'ha, o almeno è convinto di averlo: Alessandra Moretti, riapparsa giusto ieri sera sugli schermi televisivi (Otto e mezzo, La7), volto popolare e non solo per la liason con Massimo Giletti. Da qui il dilemma: esporla e temprarla al fuoco amico delle primarie o portarla incolume al confronto con il leghista? Fosse certa la vittoria, le primarie sarebbero perfette. Candidata nel Nord-Est alle Europee, la Moretti ha preso la bellezza di 230mila voti. L'esito di una sfida interna dovrebbe essere scontato, ma non lo è. Perché, come dicono i suoi sfidanti, una cosa è candidarsi alle Europee da capolista con l'appoggio dell'apparato del Pd e il supporto dei passaggi televisivi, e un'altra convincere gli iscritti che lei sarebbe una buona governatrice. L'accusa implicita che le viene rivolta è più o meno la stessa che Rosy Bindi ha lanciato alle ministre di Renzi: scelta perché bella. E malgrado un curriculum non proprio adamantino: nel 2007 si candidò (con esito tragico) alla provincia di Vicenza nella lista «Under 35» a sostegno di Giorgio Carollo, ex coordinatore di Forza Italia, per poi entrare in Parlamento al seguito di Pier Luigi Bersani, del quale era stata portavoce durante le primarie (era il periodo in cui diceva che «Renzi fa la primadonna, è egocentrico ed è anche maschilista»). Ora che appunto sta con Renzi e vede il Veneto a portata di mano (la debolezza di Forza Italia rischia di essere fatale a Zaia) la paura è tanta. Se anche ai gazebo veneti dovessero andare pochi elettori, i più motivati e incavolati, la Moretti potrebbe uscire malconcia o addirittura sconfitta. Magari per mano della senatrice Laura Puppato, che da settimane scalpita per candidarsi alla guida di un'alleanza Pd-Cinque Stelle (anche loro alle primarie per votarla?). Pure la trevigiana Elisabetta Rubinato, vicina a Beppe Fioroni, vuole partecipare alla sfida: ha fiutato l'aria e avverte i vertici del Pd veneto che «nessuna élite può imporre scelte per le prossime elezioni». Perché tra gli uomini del premier la voglia di non farle, queste primarie, è tanta. Direttamente proporzionale alla paura di perderle. Lucio Tiozzo, capogruppo del Pd in consiglio regionale, renziano della seconda ora, primo a proporre, mesi fa, la Moretti come candidata, adesso mette in guardia dal “rischio Emilia”. «Forse», spiega al Corriere del Veneto, «sarebbe meglio fare subito quadrato intorno a un candidato forte fresco di legittimazione dal voto popolare delle elezioni europee, piuttosto che aspettare ancora e rischiare di trovarci di fronte all'incognita delle primarie». Il segretario regionale dei democratici, Roger De Menech, renziano pure lui, dice che le primarie si faranno «a fine novembre». Ma la scadenza è vicina e una data ufficiale ancora non c'è. Invece il precedente da invocare per non fare le primarie, se si vuole, è lì pronto: Sergio Chiamparino, altro renziano (stavolta della prima ora), pochi mesi fa è stato candidato dal Pd alla guida della Regione Piemonte senza passare per i gazebo. Un antefatto beneagurante, perché poi ha vinto. Ad evocare l'applicazione della “clausola Chiamparino” è adesso Debora Serracchiani (renziana, ça va sans dire). «Noi abbiamo gli strumenti già noti come quello delle primarie», premette ai giornali locali, «ma abbiamo la potenzialità e la possibilità di candidare le persone giuste che ci permettono anche di costruire non solo un presente, ma un futuro per il Veneto». Discorso contorto, ma il succo è che la “legittimazione della base”, se c'è un candidato forte che non si vuole bruciare, si può anche evitare. La stessa Serracchiani, del resto, nel 2012 fu candidata alla presidenza della Regione Friuli-Venezia Giulia senza sottoporsi alle primarie. «Le volevo fare, ma non ci furono i contendenti», è la spiegazione. Segno che, quando si vuole, un motivo per non applicare l'articolo 18 (dello Statuto del Pd) si trova facile facile. di Fausto Carioti