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Cacio e pepe, la scoperta del team di scienziati: il segreto del piatto perfetto

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Claudia Osmetti
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È difficile, difficilissima. L’impiastro “a grumo” è subito dietro l’angolo. Serve esperienza, ma non basta: alle volte fallisce anche il più blasonato chef di brigata. Sembra una passeggiata (du’-spaghi-cacio-e-pepe?), però è tra i piatti più complessi della cucina italiana. Devi azzeccare tutto: le temperature, le quantità, i gesti. Sbatti troppo e non viene. Sbatti troppo poco e lo stesso. Da oggi però c’è la scienza. L’aiutino per la “cremina” a regola d’arte arriva dalla matematica e non storcete subito il naso: è affare serio, autorevole. È addirittura una studio (undici pagine, scritte fitte e tutte in inglese, che spaziano da Richard Feynman a tabelle dettagliatissime sullo “stato della salsa”), pubblicato prima in rete sull’archivio Arxiv e poi finito in un articolo del New York Times, rilanciato dal premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi e scritto a sedici mani da otto ricercatori e studiosi. Tutti italiani, italianissimi: ma non poteva essere altrimenti. Chi altro si sarebbe mai messo lì, paziente, a fare esperimenti di termodinamica delle miscele nelle biomolecole con il solo scopo di aiutare la nonna in cucina e darle la ricetta definitiva di uno dei piatti più blasonati delle tavole tricolosi?

Loro, gli otto cervelloni, sono Giacomo Bartolucci, Daniel Maria Busiello, Matteo Ciarchi, Alberto Corticelli, Ivan Di Terlizzi, Fabrizio Olmeda, Davide Revignas e Vincenzo Maria Schimmenti: qualcuno fa parte del dipartimento di Fisica dell’università di Barcellona, qualcun altro dell’istituto Max Planck di Dresda, altri ancora dell’ateneo di Padova e dell’istituto di Scienze e Tecnologie austriaco. Da un mesetto buono hanno rivoluzionato il ricettario di famiglia (e non) scovando, con l’infallibilità del pensiero scientifico, il procedimento perfetto per la cacio e pepe perfetta (ossia per evitare quell’effetto “fase mozzarella”, chiamato così anche nel paper, “mozzarella phase”, perché d’accordo l’intenzione e l’impegno e l’applicazione e anche le competenze specifiche: mala mappazza collosa coi sassolini di pecorino che non si son sciolti, in fisichese, come la rendi?).

 

 

 

L’idea è nata quasi per caso e sicuramente da un fallimento di troppo tra i fornelli. Bartolucci, che stava studiando i liquidi ricchi di proteine, è stato trai primi a farsi solleticare: prova di qui, sperimenta di là ne è uscito un diagramma a fase coi campioni di formaggio e di amido sciolto in acqua, sono state quantificate le dimensioni dei grumi e segnate le temperature e, solo alla fine, è arrivato il modello teorico. Il segreto, signori, sta nell’amido: se manca lui col piffero che la cremina si stabilizza. Ce ne vuole tra il 2 e il 3% rispetto al peso del formaggio che si intende utilizzare: se è meno la salsa rischia di separarsi (e si va a comprare una pizza giù all’angolo), se è più diventa un mattoncino che lega no (e si va lo stesso di margherita d’asporto). Tuttavia attenzione: sì, sai che scoperta, il famoso cucchiaio dell’acqua di cottura della pasta l’amido ce l’ha già, è una vita che a Roma la fanno così, però non è sufficiente. Il metodo a prova di bomba (cioè di sbaglio) ha bisogno del rinforzino.

Via il grembiule e occhiali inforcati, è roba da prof. La cacio e pepe “scientifica” si prepara (per due persone) con 240 grammi di pasta preferibilmente tonnarelli (però i dottorandi universitari sono per definizione poco schizzinosi quindi vanno bene anche i classici spaghetti, per i più alternativi pure i rigatoni), 160 grammi di pecorino romano (oppure con un mix “tagliato” al 30% di Parmigiano, ma qui stiamo radendo l’indulgenza della tradizione), quattro grammi di amido in polvere (di mais o di patate), 40 grammi di acqua che servono per gelificare l’amido sennò serve a una pippa e del pepe nero macinato fresco a sentimento (sul pepe anche la scienza alza le mani).

 

 

 

L’amido va sciolto nell’acqua che dev’essere a temperatura ambiente, solo dopo va scaldato per addensarlo (e farlo diventare quasi trasparente). Il pecorino è meglio frullarlo (la grattugia non è il massimo perché crea pezzi non omogenei) con la miscela di amido che, nel frattempo, s’è un po’ raffreddata. La pasta va scolata al dente (lo dice la ricerca, facciamo mica i furbi con cotture extralunghe che questa è l’abc) e non bisogna amalgamare tutto subito, sennò il calore è troppo e la cremina va a ramengo. Tocca aspettare un minuto e, se la salsa non è ancora sufficientemente incorporata, si può correggere con dell’acqua di cottura, ma solo a questo punto. Guai prima. E buon appetito.

 

 

 

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