Meloni-Trump, buona la prima. Così l'Italia parte in vantaggio
Ciak, buona la prima. Le premesse e le promesse sono ottime, la visita lampo di Giorgia Meloni in Florida è un colpaccio di diplomazia e comunicazione, Donald Trump ha ricevuto la premier con l’attenzione riservata a un alleato chiave, con gli applausi degli invitati nella ballroom dorata del club di Mar-a-Lago, accompagnato da Marco Rubio (prossimo segretario di Stato), Mike Waltz (sarà il Consigliere per la sicurezza nazionale) e Scott Bessent (andrà al Tesoro), con loro anche Tilman Fertitta (sarà lui l’ambasciatore americano a Roma).
Trump si è presentato con le punte di diamante della nuova amministrazione, segno che non era solo uno scambio di cortesie, ma un primo contatto con chi seguirà i dossier della politica estera (Rubio), dell’intelligence e della difesa (Waltz), della politica economica (Bessent) e delle relazioni diplomatiche tra Washington e Roma (Fertitta). Il governo Maga ha una gran voglia di lavorare con Palazzo Chigi, la premier gode di una forte apertura di credito e agli occhi di Trump è già un «punto di riferimento». La sintesi è che il blitz in Florida è andato bene, sotto ogni punto di vista, il resto lo vedremo dal 20 gennaio in poi. Va ricordato che alla Casa Bianca c’è ancora Joe Biden e i dossier (compreso quello riguardante la prigionia di Cecilia Sala in Iran e lo scambio chiesto da Teheran con Abedini, un ingegnere legato ai Pasdaran arrestato in Italia su mandato della giustizia americana) sono gestiti dall’amministrazione uscente. Il finale è tutto da scrivere e l’inchiostro americano per ora è quello dei democratici. Non si tratta di un dettaglio, in America la “transizione” è un passaggio istituzionale che viene preso seriamente e, a dispetto di quel che si pensa, vi è molta rigidità da parte di tutti, entranti e uscenti, nel rispettare i tempi del mandato. Dunque se è vero che la scena mediatica è già di The Donald, è certo che Biden e i suoi ministri prenderanno decisioni fino all’ultimo minuto del loro mandato. Biden pochi giorni fa ha bloccato l’acquisto del gigante dell’acciaio americano, la US Steel, da parte dei giapponesi di Nippon Steel, una decisione di grande importanza giustificata, secondo il Presidente, da ragioni di «sicurezza nazionale».
I giapponesi sono alleati degli Stati Uniti, sono il ponte americano in Asia dal dopoguerra, ma Biden ha deciso di esercitare il suo potere di veto. Dunque quello che è “urgente” - a cominciare dal caso di Cecilia Sala - è ancora per due settimane nelle mani di Biden, di Antony Blinken e di Jake Sullivan, non sono le uniche, perché c’è l’Italia e ci sono soprattutto le manine dell’Iran che fanno e disfano. Il destino ha incrociato il calendario e la cronaca, la rotta Washington-Roma è molto trafficata in questi giorni, Biden partirà per l’Italia il 9 gennaio, resterà nella Capitale fino al 12 gennaio, incontrerà Papa Francesco, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il premier Meloni. Incontri separati, è il congedo del 46° Presidente, probabilmente la sua ultima missione all’estero, con lui ci sarà anche Blinken, che ha già fissato in agenda un colloquio con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. In questa girandola romana di Biden, si consuma un altro frammento della transizione americana e si prepara un nuovo inizio dei rapporti tra Stati Uniti e Italia. Come sarà questo inizio? Meloni parte in vantaggio rispetto ai leader di Francia e Germania, per questioni di affinità politica, di agenda e di stabilità ha molte carte da giocare nella relazione con la Casa Bianca, ma sa di dover fare i conti con “l’interesse americano”, faro del «Make America Great Again» di Trump. Tutti i presidenti americani hanno dato all’Europa filo da torcere, quando fu eletto Biden nel 2020, a Bruxelles dissero che finalmente era arrivato un vecchio amico con cui si poteva negoziare, salvo poi scoprire che i dazi erano tali e quali a quelli piazzati in mezzo all’oceano da Trump e che i piani di sostegno economico dell’industria varati dai democratici erano un colpo al cuore alla concorrenza con la manifattura europea. Tutto dimenticato, ma questa è la realtà, appesantita dai contraccolpi della guerra in Ucraina che hanno favorito l’export di energia dell’America: nel 2024 l’Europa rappresentava il 55% delle esportazioni totali di gas liquido degli Stati Uniti, il 34% è stato spedito in Asia mentre il restante 11% è andato principalmente in America Latina con alcuni carichi destinati al Medio Oriente, principalmente in Egitto e Giordania. Alla bolletta energetica dobbiamo aggiungere gli effetti della politica di rialzo dei tassi che, per combattere l’inflazione galoppante, ha rallentato la ripresa economica europea nel periodo post-pandemia. Trump non rinuncerà a questi guadagni, sono ossigeno per la bilancia commerciale americana, non a caso ha chiesto all’Europa più acquisti di gas liquido e più spesa militare. Giorgia Meloni gioca una partita doppia: ha aperto un canale privilegiato con gli Stati Uniti, ma dall’altra parte dovrà mediare con gli Stati dell’Unione europea, un club che naviga nell’oceano dell’incertezza. Viviamo tempi interessanti, forse troppo.