Sechi e Cecilia Sala: altro che libertà di stampa, si chiama politica degli ostaggi
Teheran non è Mosca, ma lo scenario ha tutti gli elementi di un romanzo di John le Carré: la sfida tra potenze, il trasferimento di informazioni e tecnologia per scopi bellici, la guerra, una donna innocente che finisce in una vicenda dove la partita è quella tra il Bene e il Male.
È una storia che non ha niente a che fare con la libertà di stampa, l’arresto di Cecilia Sala, ora dopo ora, sta assumendo un’altra dimensione: è un sequestro di persona. Non a caso i capi d’accusa sono ignoti, arriveranno solo quando serviranno a mettere in moto un altro passaggio della fiction, costruire il prossimo episodio. Il governo italiano fa il suo lavoro, invita alla prudenza, muove la diplomazia, si è assicurato che Sala sia trattata con umanità mentre è rinchiusa nel carcere di Evin a Teheran, quello dove sono (destinati i dissidenti politici.
È una storia che viene da lontano, comincia con la Rivoluzione Islamica del 1979 e arriva fino ai giorni nostri, è il capitolo di un intrigo che si svolge su una scacchiera globale dove i pezzi oggi sono mossi da Stati Uniti e Iran. È un racconto di comprati e venduti, spie, elettronica, droni e guerra. Passato e presente s’intrecciano, gli ostaggi stranieri in Iran sono un eterno ritorno della storia, un elemento costante della politica estera e della dottrina della guerra iraniana.
È una storia dove l’Italia entra in scena nel Grande Gioco quando il 16 dicembre scorso all’aeroporto di Malpensa è stato arrestato Mohammad Abedini Najafabadi, sulla sua testa pendeva un mandato di cattura del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il 38enne iraniano è il “mago” dei droni dei Teheran, legato alle Guardie della Rivoluzione, i pasdaran. Li riforniva di componenti elettronici per far volare i droni da combattimento. Inchiesta della giustizia americana, richiesta d’arresto e fermo eseguiti in un lampo, come un fulmine è arrivata la domanda di estradizione da parte degli Stati Uniti, tutto così veloce da innescare un’indagine conoscitiva della magistratura. La fine del capitolo è ancora tutta da scrivere.
È una storia di utili idioti, quelli che sfilano nelle piazze italiane e con le loro manifestazioni antisemite sono diventati una delle armi di distrazione di massa del regime iraniano. È una storia di smemorati, quelli che hanno dimenticato il primo passo del khomeinismo, la “crisi degli ostaggi”, il dramma dei 52 diplomatici americani intrappolati nell’ambasciata di Teheran dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981.
È una storia che ha colto Cecilia Sala nel posto sbagliato al momento sbagliato, mentre faceva la cosa giusta. Non sapeva che cosa l’attendeva, è andata a Teheran per fare il suo mestiere, sapeva come muoversi, è diventata un bersaglio perfetto, una pedina. A un certo punto, nella frenetica ricerca di una carta da giocare, l’attenzione del regime si è concentrata su una presenza, la sua, il grande fratello iraniano ha individuato l’elemento necessario per tenere aperta la partita con Washington. Un colpo preciso, il prelievo di una giovane donna, una giornalista, un’italiana, il trasferimento in carcere, due telefonate, il silenzio. La dissidente iraniana Shirin Ebadi, avvocato e premio Nobel per la pace, ha ricordato che «prendere ostaggi e ricattare sono una tradizione in Iran da molto tempo», Cecilia Sala «non sarà l’ultimo ostaggio» preso da Teheran.
Tutti i pezzi vanno a dama, nessuno conferma questa storia, nessuno conosce le accuse, nessuno conosce il finale.