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Legge Calderoli e referendum, "sinistra terrorizzata dal quorum"

Fausto Carioti
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 Il referendum per l’abrogazione totale della legge sull’autonomia differenziata si farà. Almeno secondo la Corte di Cassazione, che ieri, con un’ordinanza che sarà pubblicata nei prossimi giorni, ha dato il via libera. Non è il giudizio definitivo: quello spetta alla Corte Costituzionale, tenuta a esprimersi entro il 20 gennaio tenendo presente l’articolo 75 della Costituzione: «Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali». In sostanza, i giudici della Consulta dovranno decidere se la legge che introduce l’autonomia è equiparabile a una legge di bilancio: le altre ipotesi di illegittimità non sono plausibili.

Nemmeno il passaggio di questo vaglio, però, garantirebbe lo svolgimento del referendum. Se il parlamento nel frattempo cambierà la legge, come ha chiesto di fare la Consulta, la pratica tornerà sul tavolo della Cassazione, che dovrà valutare la portata delle modifiche: se le riterrà sostanziali, tali da aver dato vita a una legge nuova, diversa da quella che i promotori del referendum volevano abrogare, il quesito non potrà avere corso. In questa evenienza servirà una nuova richiesta (e una nuova raccolta di firme) per indire un altro referendum, che non potrebbe tenersi prima del 2026.

 

 

 

Partita ancora aperta, dunque, anche se da ieri le probabilità che gli elettori siano chiamati a votare per cancellare l’autonomia sono aumentate di molto. In tal caso, l’appuntamento ai seggi è previsto in una domenica tra il 15 aprile ed il 15 giugno del 2025, e il referendum sarà valido solo se la metà più uno degli elettori si presenterà a votarlo.

Un quorum che appare come uno scoglio altissimo, viste la bassa affluenza che si registra normalmente alle urne (49,7% di votanti alle ultime Europee) e la decisione della maggioranza di puntare sull’astensione “politica”, che andrà a sommarsi a quella fisiologica.

 

 

 

Scelta non ancora annunciata dai leader della coalizione, ma che il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha anticipato ieri: «Chi crede nell’autonomia non deve andare a votare. Mi sembra logico, visto che questo è un referendum con quorum. La partita si giocherà su questo punto». Rivolgendosi alle opposizioni, ha quindi lanciato la sfida: «Ora avete un problema, quello di trovare i voti».

Anche Roberto Calderoli, ministro per gli Affari Regionali, estensore della legge, pure lui leghista, vede il lato positivo della decisione della Cassazione: «Dichiarando ammissibile il referendum, di fatto dice che la legge 86 è viva, vegeta e gode anche non di ottima, ma di buona salute. Vuol dire anche che la legge c’è ed è immediatamente applicabile». A chi, alla kermesse meloniana di Atreju, gli chiede se intenda fermarsi, Calderoli risponde senza rifugiarsi nel politichese: «Davanti a una domanda del genere mi tocco le palle, perché io intendo andare avanti».

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ammette di nutrire una passione per l’autonomia differenziata meno accesa rispetto a quella dei leghisti: «Nel programma sono stati inseriti temi importanti per tutti i partiti della coalizione, anche se magari c’era un gradimento diversificato», racconta.

La sua posizione, però, è la stessa degli alleati: nell’ordinanza della Cassazione non c’è alcuno «smacco per il governo», trattandosi di «una valutazione tecnico-giuridica». E se la Consulta darà il via libera definitivo al referendum, «ben venga, siano gli italiani a decidere».

L’opposizione usa due registri. Il coro dice che dopo la decisione con cui la Consulta ha definito «illegittime» alcune disposizioni della legge sull’autonomia e invitato il parlamento a colmare i vuoti così creati, e dopo il via libera degli ermellini al referendum, il provvedimento è affossato. Secondo la segretaria del Pd, Elly Schlein, bisognerebbe infatti «che il governo fermasse i negoziati sulle intese e anche che abrogasse questo testo». Per una volta il leader del M5S, Giuseppe Conte, la pensa come lei: «Chi vuole la secessione se ne faccia una ragione e si fermi».

Ma dietro ai toni bellicosi ci sono tanti esponenti di sinistra che confessano la paura di uscire umiliati dalla prova referendaria. Sanno quanto sarebbe impopolare, al Nord, fare propaganda contro l’autonomia, e difficile portare ai seggi metà degli italiani. Per questo nel Pd il governatore dell’Emilia-Romagna, Michele De Pascale, si guarda bene dal cantare vittoria e chiede una tregua al governo: «Su un tema come questo dobbiamo andare a un referendum lancinante? Non possiamo fermarci un secondo e dire che quello che bisogna fare è un tagliando al titolo V della Costituzione?». Toni diversissimi da quelli di Riccardo Magi, leader di +Europa, che esulta al pensiero della «splendida primavera referendaria» che s’avvicina.

Quello sull’autonomia, infatti, non è il solo quesito che ha avuto il semaforo verde dalla Cassazione. Gli italiani (sempre Consulta permettendo, ma qui è difficile immaginare ostacoli) saranno chiamati a votare anche i referendum chiesti dalla Cgil per abrogare alcune norme sugli appalti e del Jobs act, riguardanti in particolare i licenziamenti, nonché il quesito per rendere più facile la concessione della cittadinanza agli extracomunitari, dimezzando (da 10 a 5 anni) il periodo di residenza legale in Italia necessario per avanzare la richiesta. Sei referendum in totale, e su tutti l’incubo del quorum: alla fine, chi voterà uno voterà anche gli altri, e falliranno o avranno successo insieme.

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