Ennio Doris a tutto campo: "Chi non taglia le tasse aumenta la povertà. Mario Monti? Il cervello..."
Di politica non vuol parlare, il fondatore e presidente di Banca Mediolanum, questione di rispetto delle competenze. Però Ennio Doris sembra avere le idee molto più chiare dei nostri esponenti governativi su quello che servirebbe al Paese, se non per volare, quantomeno per non tracollare. Il dibattito attuale in Italia è se sia peggio la tassa per la plastica, quella per le bibite o quella sulle auto aziendali ma il punto non è quale balzello faccia più danni bensì quando i governi, di qualunque colore essi siano, cominceranno a cambiare approccio di fronte a una crisi che ci logora da oltre dieci anni. «Il mondo è in ripresa» analizza Doris, «ma non l' Europa, che cresce meno degli altri, e tantomeno l' Italia, che in Europa cresce meno di tutti». Presidente, dobbiamo rassegnarci al declino, perché il nostro modello è sorpassato, o ci sarebbero medicine efficaci? «Quando uno è malato può usare gli antinfiammatori, se non c' è nulla di grave, o gli antibiotici, se c' è un' infezione in corso. In economia il taglio del costo del denaro è l' antinfiammatorio e il taglio delle tasse è l' antibiotico. Noi in Europa stiamo curando una pleurite come fosse un raffreddore, con dosi da cavallo di antinfiammatori: continuiamo ad abbassare i tassi d' interesse con risultati modesti e conseguenze distorsive dei processi economici, come i tassi d' interesse negativi, anomalia storica e geografica». Perché gli Usa hanno avuto il coraggio di rispondere alla crisi tagliando le tasse e l' Europa no? «L' America è uscita dalla crisi rilanciando i consumi e Geithner, il segretario al Tesoro di Obama, chiese all' Europa di fare lo stesso. Ma la Germania, che è il Paese guida della Ue, ossessionata dall' inflazione e dal fantasma della Repubblica di Weimar, si rifiutò, condannandoci a una crisi infinita. Lo ha detto perfino Draghi: l' attivo di bilancio tedesco è un male per l' Europa». Quindi la nostra crisi è più colpa dei tedeschi che degli italiani? «No. L' Italia ha il grande problema del debito pubblico, che significa avere pochi soldi a disposizione per impostare una politica di risanamento e rilancio. Se poi, con l' economia stagnante, si approvano leggi di spesa improduttive, si finisce a doverle finanziare tutte con nuove tasse, il che impedisce la ripresa». Allude al reddito di cittadinanza e alle pensioni a quota 100? «Non voglio valutare queste due leggi nel merito, è giusto che uno Stato vasa incontro a chi è in difficoltà. Però è un fatto che esse ci siano già costate 15 miliardi e che nel lungo periodo ce ne costeranno oltre 50 e che non produrranno ricchezza: sono soldi che sarebbero potuti essere usati per tagliare le tasse, produrre ricchezza, uscire dalla crisi e solo allora finanziare leggi di spesa sociale. I politici italiani devono capire che la crisi fa male ai poveri e non ai ricchi: i primi si rovinano, i secondi semplicemente guadagnano meno, il che aumenta la forbice sociale, come è avvenuto in questi anni. Protrarre la crisi poi riduce sempre più le risorse disponibili per dare una mano a chi è in difficoltà». Reddito e quota 100 sono misure del governo gialloverde: cosa pensa della manovra del governo giallorosso? «Prende tempo, scongiura l' aumento dell' Iva grazie alla benevolenza dell' Europa e alle microtasse, ma non cambia l' approccio. Il denaro pubblico può essere speso in investimenti utili e meno utili. Se tagli le tasse a lavoratori e imprese, crei economia, se aumenti la spesa improduttiva, la bruci. Mi sembra che tutto sommato si sia rimasti all' interno della seconda opzione». Cosa si sarebbe dovuto fare? «Se avessimo usato tutti i 15 miliardi di reddito e quota cento per ridurre le tasse, tra due anni ci saremmo ritrovati i soldi per finanziare le due norme senza alzare il debito. Cosi invece facciamo debito sul debito. Lei sa l' ultima volta in cui il debito pubblico scese in Italia?». Secondo governo Berlusconi? «Esatto. Dopo aver vinto le elezioni nel 2001, Silvio tagliò le tasse e iniziarono gli ultimi anni buoni per la nostra economia e il debito che si ridusse dal 120% del Pil al 104%. Oggi, malgrado quasi dieci anni di austerità, è giunto oltre il 132%». Gli italiani però non sono così poveri, il disavanzo al netto degli interessi sul debito pubblico diminuisce e i risparmi crescono «Siamo più virtuosi dei nostri governi. E poi ci salvano le esportazioni. Se si fermassero, crolleremmo». Pagheremo il conto della guerra dei dazi tra Usa e Cina? «Se a gestirla fossero persone ragionevoli, la guerra dei dazi si sarebbe conclusa in un paio di mesi. In partenza hanno ragione gli Usa, che hanno una situazione dazi sfavorevole con quasi tutto il mondo, Europa compresa. Però Trump deve avere un approccio più morbido con la Cina, perché è un Paese che ha un forte potere contrattuale ed essendo un regime non può permettersi di mostrarsi sconfitto, pena il rischio di disordini interni. Il caos è più temuto dalle dittature che dalle democrazie. Ciò detto, sono convinto che la guerra dei dazi finirà, perché fa male a tutti. Molto alla Cina, che esporta più di quanto importa e meno agli Usa, che hanno una forte domanda interna. Però tra un anno in America si vota e Trump non può permettersi il minimo rallentamento economico, altrimenti si gioca la riconferma». Anche a causa della guerra dei dazi la Germania oggi è perfino più in crisi di noi: questo la costringerà a rivedere la sua politica di austerità e a smetterla di imporla al resto d' Europa? «Mi tocca citare ancora Draghi: la stabilità e il rigore sono importanti e tutti devono essere accorti; ma è una questione di buon senso e misura e se la Germania non inizia una politica fiscale espansiva e non molla le briglie, la situazione si complica in tutta Europa, Italia in testa. Allora è giusta la critica dei partiti sovranisti italiani all' Europa? «Occhio a giocare con l' Europa. Quando si dichiara che la politica ce la facciamo noi italiani e non i mercati, si espone il Paese a un rischio. A giugno 2018 l' economia cresceva dell' 1,7% ma io chiamai Berlusconi e gli dissi che ci saremmo fermati. Era facile prevederlo: l' Italia ha un grosso debito con i mercati, se di colpo dichiara che non gliene importa, ecco che essi le chiedono più interessi per prestarle soldi, e automaticamente l' economia rallenta. Bisogna stare attenti a sfidare l' Europa. Berlusconi lo fece, nel 2011, e aveva ragione, ma la pagò carissima». La teoria del complotto? «Nessun complotto. Quando nel 2011 esplose la crisi, i tedeschi chiesero all' Italia di firmare il fiscal compact, il patto che ci avrebbe obbligato a portare il debito al 60% del Pil in vent' anni. Una cura da cavallo insostenibile, Silvio si oppose e le banche tedesche risposero vendendo i nostri titoli di Stato, in aprile. Siccome ne avevano relativamente pochi, la cosa non produsse effetti. Quando però, a giugno, Deutsche Bank e Commerzbank presentarono le semestrali, tutti videro che la Germania si era liberata del debito italiano, e si scatenò il panico. Bisogna evitare che si scateni ancora, perché il panico sui mercati produce sempre effetti devastanti». Da noi produsse l' arrivo del governo Monti: un caso? «Ci voleva qualcuno che si allineasse maggiormente alle istanze europee. Il governo Monti è la prova che le tasse uccidono un Paese, anche se esso gode del favore della Ue. Comunque sono convinto che la legge Fornero fosse un' ottima iniziativa, fatto salvo per gli esodati». Il professore bocconiano non condividerebbe. «Nessuno riconosce i propri errori, ce lo impedisce il nostro cervello. Le crisi economiche sono come le immersioni dei sub in apnea: se stai sotto tre minuti, puoi spingerti fino a 30 metri di profondità senza rischiare, ma se stai due metri sott' acqua per dieci minuti senza respirare, muori. Nel 2011 l' economia cresceva dello 0,6%, con la cura Monti già l' anno dopo perdevamo il 2,8% e nel 2014 un altro 2%. Se l' economia scende, non incassi più neppure dalle tasse». Torniamo all' attualità presidente: come siamo messi? «Abbiamo lo stesso Pil di 15 anni fa, questa crisi ci è costata più della Seconda Guerra mondiale, se considera che nel '49 avevamo già recuperato i livelli di produzione del '39. È la prova del sub: non importa quanto in basso scendi, ma quanto resti sotto senza respirare». Di cosa avremmo bisogno? «Si torna sempre allo stesso punto: un taglio fiscale aggressivo». Era d' accordo con la flat tax di Salvini? «L' aliquota fiscale unica al 15% non ce la saremmo potuta permettere ma il taglio al 23%-25% che suggeriva Silvio era fattibile e avrebbe generato ricavi. Non si battono le disuguaglianze con i redditi di cittadinanza, perché li devi finanziare con le tasse, che bloccano l' economia e aumentano le disuguaglianze. A volte lo Stato è generoso quando dovrebbe essere attento e tirchio quando dovrebbe essere prodigo». Per approfondire leggi anche: Matteo Salvini, proposta sulle microtasse Allude alla gestione delle crisi bancarie italiane? «Per esempio... Nel 2016 avevamo quattro banche in crisi: Etruria, Ferrara, Marche e Chieti. Bisognava evitare che scattasse il bail-in, la sciagurata normativa europea che fa pagare ai risparmiatori gli errori degli istituti di credito, perché si sarebbe scatenato il panico. Servivano 4,5 miliardi e si decise di utilizzare il fondo di risoluzione delle crisi, dopo il rifiuto europeo di poter ricorrere al fondo obbligatorio di garanzia dei depositi, considerato un aiuto di stato. E l' Europa ci chiese anche di non risarcire i titolari di obbligazioni subordinate, perché ritenute un investimento a rischio. Il governo e il ministro Padoan, anziché impuntarsi, preferirono obbedire all' Europa e trattare sulla flessibilità dei conti. Così il fondo non coprì 780 milioni di perdite, la metà dei quali in mano a 11mila persone comuni. Fu il disastro, un risparmiatore si sparò e il panico travolse anche le banche venete. Alla fine, per risparmiare la metà di 700 milioni, il sistema ne ha pagati molti di più». Cosa pensa dell' uscita di Unicredit da Mediobanca? « Mustier aveva detto di considerare la partecipazione in Mediobanca un asset finanziario, e non più strategico e industriale. Quindi, appena si sono presentate condizioni propizie, ha mantenuto la parola, così come aveva fatto con Fineco. Mi sembra si stia giustamente concentrando sul core business». Davvero il sistema bancario per sopravvivere deve andare incontro a numerose fusioni, fino a che non rimarranno 4-5 grandi player sul mercato? «Con mercati globali la dimensione è sempre più un fattore critico di successo. Vale anche per le banche. Sono certo che tra i protagonisti del futuro vi saranno anche banche italiane, che hanno goduto di aiuti di Stato ridicoli, se paragonati a quelli di cui hanno beneficiato gli istituti tedeschi, inglesi o spagnoli. Le banche italiane sono invece sempre andate avanti con le proprie gambe, attraverso aumenti di capitale». di Pietro Senaldi