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Alessandro Di Battista, mea-culpa sul "Fatto"? Tutta la verità: perché è un tentato-golpe

Davide Locano
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Quindi, se il Movimento ha perso voti, credibilità e si è dimezzato, diventando una specie di Movimento due Stelle e mezzo, la colpa - secondo Alessandro Di Battista - è di chi ha rinnegato le origini, si è distaccato dallo spirito dei fondatori, in fondo ha tradito se stesso. Per farla breve, i grillini perdono perché non sono più come erano una volta. E invece noi abbiamo il fondato sospetto che i grillini perdano proprio perché sono come erano una volta, e sono rimasti tali e quali, nonostante gli oltre sei anni nelle stanze del potere: ossia inesperti, pasticcioni, distaccati dalla realtà con promesse fasulle che quasi mai si avverano, e una classe dirigente dove fatichi a trovare qualcuno di presentabile. Leggi anche: "Il D'Alema del M5s": Di Maio azzera Di Battista Tutto il mea culpa che Dibba, ormai passato dalle battaglie in Parlamento alle battaglie editoriali, fa nel libro in uscita oggi per Paper First, Politicamente scorretto, si regge dunque a nostro avviso su un assunto sbagliato. Certo, va riconosciuta al Che Guevara dei 5 Stelle onestà intellettuale e capacità di fare una diagnosi impietosa degli errori del proprio partito. Di Battista sa dire due cose che è raro sentir dire nel mondo della politica: «Abbiamo perso» e «Abbiamo sbagliato». E prova a individuare le cause di questo fallimento. Dice che gli esponenti del Movimento hanno avuto «paura di sembrare "politicamente scorretti" una volta diventati Istituzione; paura di attaccare la Lega sui 49 milioni rubati; paura di essere calunniati dal sistema mediatico come se non fossimo cresciuti e non ci fossimo rafforzati anche grazie a tutto quel fango; paura di apparire, ancora una volta, novellini inesperti». Per farla breve, i grillini al potere avrebbero avuto paura di osare. Ma, dice Dibba, avrebbero avuto anche paura di essere veri, come erano prima della trasformazione genetica da anti-politici a politicanti, prima che si innamorassero della Poltrona e del Palazzo. «Abbiamo perso le elezioni», scrive, «perché ci siamo via via trasformati in burocrati rinchiusi diciotto ore al giorno nei ministeri. Mentre Salvini al Ministero non ci stava quasi mai. Le strategie lasciamole ai politicanti, se entriamo nel loro campo ci fanno a pezzi». La disamina può essere più o meno corretta, ma appare comunque troppo comoda. Perché viene da uno che nelle stanze del potere ha deciso di non starci più, che ha preferito non sporcarsi le mani e nondimeno pretende di dettare la linea. E no, troppo facile così, fare il ct standosene seduti sulla poltrona di casa Se proprio voleva cambiare il Movimento, o meglio lasciarlo tale e quale era, Di Battista doveva rimanere dentro al Palazzo, non chiamarsi fuori. Ma le sue parole, pur arrivando da una voce esterna, costituiscono, e questo Di Battista lo sa bene, un atto di accusa pesantissimo contro l' attuale classe dirigente pentastellata, sono uno schiaffone alla linea politica di Di Maio, una delegittimazione della sua figura e di tutto l' establishment oggi al potere. Di fatto, Di Battista accusa Giggino di essersi infighettato, di giocare a fare il burocrate, di non avere le palle per sfidare i media e portare avanti battaglie coraggiose, di tenersi troppo buono Salvini e di non saperlo emulare sul piano migliore, la capacità di stare in mezzo alla gente. Insomma, Di Maio starebbe sbagliando tutto. Così parlo Di Battista. Ma ribadiamo: il problema non è cosa Di Maio è diventato. Il problema è cosa Di Maio era e continua a essere. Uno che farebbe meglio a trovarsi un altro mestiere, sempre che sia in grado di farne uno. di Gianluca Veneziani

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