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Luigi Di Maio, vergogna sul caso Whirlpool: ha detto un sacco di balle, ecco le prove

Davide Locano
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Il ministero dello Sviluppo economico è diventato il ministero delle crisi: 160 tavoli aperti e nessuno se ne occupa». Lo ha detto Francesca Re David, segretaria generale della Fiom-Cgil, nel corso di un' intervista pubblicata ieri sul Corriere della Sera. Il quadro in cui ha pronunciato queste parole descrive un paese in cui la classe dirigente ha lasciato alle multinazionali il compito di disegnare la politica industriale. Whirlpool è il simbolo di questa follia. Ma visto che non c' è limite al peggio, la mancanza di visione dell' attuale classe politica - o forse più semplicemente l' incapacità di guardare oltre il loro naso - porta a pesanti storture nei rapporti tra rappresentanti e rappresentati, con gli eletti dal popolo che giocano con la pelle dei lavoratori per meri interessi elettorali. Leggi anche: Manovra, Di Maio scarica tutto su Salvini Luigi Di Maio, tra l' altro titolare dello Sviluppo economico, sapeva da aprile delle intenzioni della Whirlpool di disfarsi dello stabilimento di Napoli ma avrebbe deciso di non dire niente per le imminenti elezioni europee. Sarebbe stata una pessima pubblicità. Ma la compagnia aveva avvisato per iscritto il ministro di non essere più in grado di tener fede all' impegno di investire 17 milioni nella fabbrica di Napoli, dove si producono lavatrici di fascia alta, visto il calo importante nella domanda di quel segmento di mercato. DOPO IL VOTO Poi il 31 maggio, a elezioni archiviate, la multinazionale ha rivelato pubblicamente l' intenzione di voler trovare un acquirente in grado di mantenere gli attuali livelli occupazionali, e Di Maio, fingendosi sorpreso dalla notizia «appena appresa» ha subito accusato l' azienda di voler chiudere la fabbrica, cosa non vera, visto che l' azienda gli scrisse la volontà di trovare un compratore. Così facendo Di Maio, dopo l' incontro che "salvò" la fabbrica, potè rivendersi come il santo protettore delle tute blu. La ricostruzione è opera del sito Politico.eu che cita documenti del ministero visionati dai suoi giornalisti. Ma non è chiaro chi sia la fonte originale. Questo perché due giorni prima della pubblicazione dell' articolo, l' ex ministro Carlo Calenda, predecessore di Di Maio al Mise, ha accusato l' attuale titolare della stessa nefandezza. Non è quindi da escludere che l' ex ministro sia riuscito ad ottenere lo scoop attraverso amici all' interno del dicastero e che poi l' abbia girato al sito. In ogni caso, si tratta di particolari ininfluenti: è il fatto in sé ad essere estremamente grave. Un ministro che ignora volutamente una comunicazione del genere inguaiando centinaia di lavoratori per non incrinare i rapporti con il suo elettorato e non rischiare di perdere voti preziosi, non sta facendo il suo lavoro. E dovrebbe passare la mano. Ma c' è un' altra ipotesi in campo che però porta alle stesse conclusioni. TROPPI LAVORI È noto che Di Maio, titolare anche del dicastero del Lavoro, vicepremier e capo politico del M5S, preferisce i comizi e le comparsate tv al lavoro d' ufficio, motivo però per cui è pagato dai contribuenti. Può anche essere che non sapesse davvero della lettera: troppo occupato ad insultare avversari politici e alleati. I tavoli di crisi si sono moltiplicati così rapidamente sotto la sua guida che i dieci minuti al giorno dedicati al ministero dello sviluppo economico non bastano per avere chiaro il quadro completo. L' accusa della sindacalista della Fiom-Cgil è vera quanto grave: nessuno al ministero si occupa, seriamente, delle crisi aziendali. Motivo sufficiente per allontanarlo dal Mise: non è in grado di fare il suo lavoro. Carlo Calenda e Mara Carfagna hanno chiesto al vicepremier di riferire della vicenda in aula. Se la caverà con la solita supercazzola. di Antonio Spampinato

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