Luigi Di Maio, il pollo perfetto: dalla Cina agli Stati Uniti, Renato Farina lo fa a pezzi
Luigino Di Maio è a New York e punta su Washington. È andato lì con il capo chino e il cappello da cow boy. Quando è arrivato in America, aveva ancora le guance insalivate dal bacione di Xi Jinping, il quale pare si sia commosso per la beata ignoranza di Gigino, che convinto dell' eleganza di un gesto multiculturale di sottomissione aveva usato un fondotinta giallo itterizia, fattosi prestare da Berlusconi che lo usa quando si vuol dare malato. Troppa satira, troppo sarcasmo? Sempre meno della pagliacciata messa in scena nella realtà. Ormai il capo politico dei Cinquestelle è un Pappagone per tutte le stagioni e per qualsiasi alleanza. È il nuovo Tiramolla della politica mondiale. Se lo facesse con la maschera del leader grillino, amen, si tinteggi come gli pare, a seconda dell' interlocutore con cui menare il torrone dell' onestà. Il fatto è che questo ragazzotto impugna non la spazzola del barbiere di Grillo, e neppure la bandiera della Casaleggio & associati, ma il tricolore. Leggi anche: Sondaggio-Masia, Salvini umilia Di Maio (che non conta nulla) Il vicepremier di Pomigliano d' Arco è più rapido di un Maurizio Crozza. Il comico indossa il nasone di plastica di De Luca e in un minuto passa alla barbetta caprina di Toninelli. Il ministro, con disinvoltura da Zelig, ha dismesso in un paio di giorni gli occhi a mandorla del mandarino, per vestirsi da mandolinaro che fa la serenata alla Casa Bianca per farsi accettare dalla baldraccona yankee. E ce la vende pure, a noi italiani gonzi, che è stato bravissimo, e ha convinto Trump. Ha raccontato all' entourage (Donald non ha perso tempo con lui) che il flirt con l' uomo a capo di un miliardo e trecento milioni di cinesi è stato un' innocua scappatella, un' avventura da week-end un po' scapestrato. Ma poi Di Maio è lì, umile e compito dalla mamma americana. Che roba è? Una canzone di Gigi D' Alessio? LE DATE Osserviamo da vicino i particolari. Di Maio era stato in America il 14 novembre del 2017. A quel tempo, il M5S era lontano da Palazzo Chigi, la Cina non era mica tanto vicina ai grillini. A Di Maio piacevano il riso alla cantonese e l' anatra alla pechinese. Mao gli era antipatico per la rivoluzione culturale (un aggettivo che lo ha sempre irritato parecchio) ma soprattutto perché da ragazzino gli storpiavano il cognome chiamandolo Di Mao, o Di Miao. Dunque nel novembre del 2017 si è recato negli Usa. Per capire la sua missione serve ritagliare il titolo dedicato dalla Stampa a questa trasferta: «Di Maio vola a Washington: "Fedeli agli Usa, non a Mosca"». Il sommario completava il concetto: «In viaggio per accreditare oltre Oceano la sua candidatura a premier». A quel tempo i grillini facevano faville e molte moine ai russi come oggi ai cinesi. Ecco le parole che dettò allora: «Ricordo a tutti che la prima visita di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio dopo il nostro inaspettato successo nel 2013 fu all' ambasciata americana a Roma». Picchiò duro sul tasto della fedeltà granitica: «Siamo occidentali e il nostro più grande alleato in Occidente sono gli Stati Uniti». C' è un interesse verso la Russia? Fece l' offeso. Semmai, «è da parte loro verso di noi». Fantastica verginella vesuviana, ma chi la beve più? LA PACCOTTIGLIA Quando l' America ha avuto contezza che Luigino stava rivendendo la stessa paccottiglia napoletana di grande amicizia e di certificazione di massimo alleato ai cinesi, Trump gli ha mandato un fulmine sulla cucuzza, che essendo di ceramica è rimasta fresca e ben smaltata. Non si tratta - ammoniva la Casa Bianca - di rinunciare ad affari con i cinesi, quelli vanno bene, ma di evitare un regalone infiocchettato alla Cina, una liturgia di purificazione e di santificazione mondiale. Insomma: soldi sì, fateli pure, ma con decoro, senza sceneggiate e tarantelle. Impossibile però fermare la tammurriata. Di Maio si era recato in Cina nel novembre scorso. Il vicepremier era ospite al China international import expo (Ciie) a Shanghai. Durante l' intervento in italiano, davanti ai massimi imprenditori cinesi e americani, ha detto di aver ascoltato estasiato il discorso di apertura del "presidente Ping". Pensava forse ai famosi vasi da notte Ming & Ping? O alla mitica coppia di tennisti cinesi Ping e Pong? Poi il lapsus è tornato identico nella conferenza stampa. Il presidente cinese si chiama di cognome Xi e di nome Jinping. Lui ha dimezzato, per troppa confidenza, persino il nome. Sarebbe come se Stalin avesse chiamato affettuosamente Ano, mister Delano Roosevelt. E poi Di Maio ha il coraggio di incazzarsi se lo chiamano Giggino. POLLO PERFETTO A parte le gaffe, che lo rendono simpatico a noi, e meno ai cinesi che hanno controllato tre volte i documenti sottoscritti con il nostro governo per vedere se per caso vi risultasse la vendita della fontana di Trevi al signor Ping; a parte la gaffe, dicevamo, i cinesi hanno subito intravisto in un simile elegante damerino il pollo perfetto da laccare con qualche salamelecco. Adornarsi la coda con le penne tricolori, e poi fare affari veri con Francia e Germania e a noi lasciarci la coccarda del pirla. Sia chiaro. A noi non dispiace che si tutelino con tutti (americani, cinesi, russi, francesi e masai) gli interessi economici dell' Italia, ma senza contribuire alla ridicolizzazione morale dell' Italia, alla sua riduzione al rango di barzelletta mondiale, che fa ridere gli altri e umiliare noi. Ancora di recente, nel poderoso docu-film americano a colori sulla Seconda Guerra Mondiale (Netflix), i sovietici sono trattati bene, i tedeschi e i giapponesi pure, popoli severi, a volte crudeli ma coerenti. Invece gli italiani sono individuati in quelli che sono riusciti a prendere per i fondelli persino Hitler, il quale senza ingolfarsi con gli italiani avrebbe vinto, e in cambio è stato mollato. Anche con la prima guerra mondiale andò più o meno allo stesso modo: avevamo firmato due alleanze diverse nel giro di pochi mesi. Ma quelle erano tragedie. Qui è una farsa con il turbo. Altro che Pulcinella o Arlecchino servitore di due o tre padroni. Preistoria. Con Di Maio siamo al Trottolino amoroso dei contratti, uno ne fa e cento ne firma. di Renato Farina