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Un altro giudice di Silvio fa un comizio anti-Silvio

Alessandra Galli ha presieduto il collegio nel processo Mediaset: «Magistratura corretta ma sola davanti agli attacchi»

Nicoletta Orlandi Posti
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Non bastava Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione autore della condanna definitiva a Silvio Berlusconi, che ha aperto bocca quando il silenzio sarebbe stato regola aurea. Ieri ci si è messo anche il presidente del collegio di Corte di appello di Milano che aveva condannato il Cavaliere in secondo grado: Alessandra Galli. Non è scesa in campo per fortuna con un'intervista al giornalista del cuore: è intervenuta all'assemblea del sindacato di categoria, l'Anm. In una seduta pubblica, però, e con parole assai taglienti nei confronti del suo imputato, Berlusconi, e perfino dei moniti del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Anche se nessuno dei due è stato citato per nome e cognome. La Galli ha tuonato: «Bisogna interrogarsi sulla strada da percorrere per di- fendere non solo la categoria, ma la collettività, perché è stato messo in dubbio lo Stato di diritto e il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».  Poi il riferimento a Napolitano: «Ci si chiede di imbavagliarci, ci si invita ad essere costruttivi e ci si attende che la magistratura faccia qualcosa per la pacificazione, mentre altri (il riferimento qui è a Berlusconi, ndr) tengono comportamenti al di fuori dei principi dello Stato di diritto. La magistra-tura ha tenuto un profilo corretto, ha accolto l'invito che aveva fatto il presidente della Repubblica e i fenomeni di sovraesposizione sono cessati». E appunto il caso Esposito dice l'esatto contrario. Ma la Galli continua: «A Milano si è cercato di portare a termine i processi il più tranquillamente possibile, ma non si può chiedere il silenzio assoluto della magistratura. Di fronte ad attacchi che non trovano nessuna risposta da parte di nessuno, chi vive certe vicende si sente quasi in dovere di sottoporre all'opinione pubblica circostanze di fatto che vengono pretermesse». Il giudice che ha condannato Berlusconi ha concluso: «Dobbiamo preoccuparci di come la magistratura possa fare passare risposte puntuali di fronte ad eccessi di critica e di valutazione del nostro operato, che avvengono talvolta prima del deposito di una sentenza. Noi restiamo zitti, ma si crea così una falsa ricostruzione della realtà che poi diventa impossibile da demolire. Dobbiamo tutelare a monte quello che siamo». D'accordo, era una riunione sindacale e perfino chi ha un ruolo così delicato come presiedere un collegio di corte di appello, ha il diritto riconosciuto di fare il rappresentante sindacale. La Galli rappresenta la corrente sindacale di Area, quindi siede in quel parlamentino. E nello stesso parlamentino ieri c'era pure Cosimo Maria Ferri, l'uomo guida della corrente di Magistratura Indipendente, che al momento però fa il sottosegretario alla Giustizia nel governo di Enrico Letta. È come se a una riunione del sindacato metalmeccanici si presentasse come capo di una corrente sindacale dei dirigenti Sergio Marchionne. O come se a una vertenza editoriale si presentasse con i panni di sindacalista e pren-desse la parola il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli. Nel mondo normale cose così sembrerebbero fuori posto, in quello dei magistrati è invece normale, quindi il presidente del collegio di Corte di appello può vestire con nonchalance i panni del sindacalista. Credo che l'anomalia di questi giudicanti così ciarlieri (solo in Italia accade questo) nasca da un errore di fondo. Un errore che abbiamo sentito ripetere più volte come slogan in queste settimane, quando fino alla nausea si è ripetuto: «Le sentenze si rispettano». E naturalmente quel «rispetto» viene trasferito immediatamente sui magistrati che le emettono, come la Galli. Quindi impossibile criticare né giudici né giudicato. Dove è scritto tutto ciò? Nella Costituzione? Nella legge ordinaria? No, proprio non è scritto. Le sentenze vanno applicate, ed è compito del sistema giudiziario a-plicarle. Se questo non avviene, è per colpa loro. Ma se fanno il loro dovere, chi è stato «sentenziato», semplicemente non può sfuggire alla sentenza. Ha tutto il diritto però di dire quel che vuole, anche di non rispettare né una sentenza che ritiene ingiusta (e quanti innocenti ne vengono colpiti), né tanto meno chi gliela ha comminata. I giudici non hanno bisogno di alcuna tutela di fronte all'esercizio di questa libertà di critica e di non rispetto che un imputato condannato ha più di ogni altro al mondo. Sono tutelati dal potere enorme che hanno: quello di giudicare, assolvere o condannare. Liberare o imprigionare una vita. E dal fatto che le sentenze definitive si eseguono: non si può sfuggirne se non com- mettendo altri reati. Di fronte a un potere più grande di quello che chiunque altro ha, il contrappeso è il silenzio: i giudici parlano attraverso sentenze, e non fanno politica ribattendo colpo su colpo come a un talk show come vorrebbe la Galli. Che ha perso un'ottima occasione per tacere. E ha dato una nuova faretra di frecce all'arco di chi a quella «giustizia è uguale per tutti» ormai non crede più. Non è uguale affatto. Franco Bechis

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