Grasso prende il rimborsoe lo nega ai suoi dipendenti
E' stato restituito al presidente il contributo di solidarietà sulla pensione (era incostituzionale) ma lui non lo dà ai suoi dipendenti
La lettera è arrivata nelle ultime ore sul tavolo del presidente del Senato, Piero Grasso, e del segretario generale di Palazzo Madama, Elisabetta Serafini. Il mittente è l'avvocato Vico Vicenzi, già dirigente della stessa amministrazione. Che diffida la seconda autorità dello Stato perché applichi senza indugio una sentenza che non sta ottemperando. E non è una sentenza qualsiasi: a firmarla è infatti stata la Corte Costituzionale italiana, che ha dichiarato nel giugno scorso l'incostituzionalità di una norma del governo di Silvio Berlusconi che introduceva un contributo di solidarietà sulle pensioni oltre i 90 mila euro lordi annui (e uno più alto oltre i 150 mila euro). Come ripetono fino alla nausea in questi giorni proprio i vertici del Senato (dallo stesso Grasso al presidente della giunta delle elezioni Dario Stefano), le sentenze non si discutono, «ma si applicano automaticamente». Semplice dirlo quando riguarda il destino altrui, un po' meno quando questo accade in casa propria. Dopo la sentenza di giugno tutta la pubblica amministrazione si è adeguata - come era accaduto dopo analoga bocciatura del prelievo straordinario sugli stipendi pubblici - e ha erogato le pensioni senza più applicare quella trattenuta. Lo hanno fatto anche tutti gli organi costituzionali, a partire dal Quirinale. Ma non hanno osato farlo per non irritare l'opinione pubblica, né Camera, né Senato. A Palazzo Madama la situazione è ancora più grottesca, perché l'istituzione è guidata da un pensionato pubblico come l'ex magistrato Grasso (è in pensione anticipata concessa dal Csm nel gennaio scorso), a cui il contributo di solidarietà non è più applicato proprio in ottemperanza alla sentenza della Corte Costituzionale. La diffida del legale, che apre la pista a decine di altre iniziative che coinvolgeranno anche la Camera. E si basa peraltro su un errore giuridico compiuto dalle due amministrazioni. Camera e Senato infatti godono del regime di autodichìa: possono cioè non rispettare al loro interno le leggi che loro stessi impongono a tutti gli altri cittadini. Un regime particolare che rende di fatto falsa quella scritta apposta in ogni aula di giustizia: «La legge è eguale per tutti», perché non valendo all'interno di Camera e Senato, uguale per tutti non è. Se le due istituzioni avessero autonomamente deciso di prelevare il 5, 10 o 15 per cento sugli stipendi e le pensioni erogate, nessuno avrebbe potuto impedirlo, nemmeno la Corte Costituzionale. Travolte però dal vento dell'antipolitica sia Camera che Senato avevano deciso di sembrare per una volta uguali a tutti gli altri, accogliendo al proprio interno la legge che imponeva il contributo di solidarietà a tutti i pensionati. Siccome quella legge non è più in vigore dopo l'abrogazione della Corte costituzionale, il prelievo di Camera e Senato ai propri pensionati non ha più fondamento giuridico. E a dire il vero rischia proprio di questi tempi di non averne più nemmeno la stessa autodichìa. Tutta colpa di un dipendente del Senato, Piero Lorenzoni, oggetto di un provvedimento disciplinare interno confermato dai tribunalini che Palazzo Madama si è costituito, ma ritenuto dallo stesso ingiusto. Lorenzoni è andato in cerca di un terzo grado di giudizio indipendente, facendo ricorso alla Corte di Cassazione. Il Senato ha considerato quel ricorso illegittimo, sostenendo di non potere essere giudicato da terzi su questioni interne. La Cassazione ha ritenuto invece ricevibile il ricorso e davanti al braccio di ferro con la seconda istituzione dello Stato, ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, che potrebbe picconare ora quella extraterritorialità di cui godono i palazzi principali della politica. Se ne è accorta subito il presidente della Camera, Laura Boldrini, che fregandosene altamente dei diritti di un lavoratore, è scesa in campo contro Lorenzoni (il quale non è suo dipendente) affiancando Pietro Grasso davanti alla Corte costituzionale. Fosca Bincher