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Silvio torna falco:"Non si libereranno di me così"

Silvio Berlusconi

Lucia Esposito
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Silvio Berlusconi rimane in silenzio lasciando che siano i suoi dirigenti, quelli tradizionalmente più moderati, a tenere alto il livello dello scontro all'interno della maggioranza. Ieri l'ex premier è rimasto ad Arcore. Ha ricevuto il vice premier Angelino Alfano. E, a seguire, ha visto i “falchi” Denis Verdini e Daniela Santanchè. Come è solito fare, al variare degli interlocutori, Silvio ha anche modulato l'asprezza della linea. Più diplomatico con i filogovernativi. Più duro con gli ultrà.  Però ieri è prevalso il falco che è in lui. Ed  è tornata a rimontare l'ipotesi della rottura. Motivata dall'impossibilità di trovare una soluzione che permetta al Cavaliere di uscire dall'angolo. Dal Quirinale hanno fatto sapere che, in assenza di una richiesta di grazia (che comunque l'avvocato Franco Coppi non ha escluso), la linea di Giorgio Napolitano rimane quella del 13 agosto, illustrata in una lunga nota affidata alla stampa. La sintesi (brutale) era: Berlusconi può fare politica anche se non è più in Parlamento. Da casa. Dai domiciliari.  Ma il Cavaliere non ci sta a essere archiviato così. Non è degno di lui, non lo merita la sua storia. Così ritorna a tirare calci. Lo fa fare ai suoi. Ordina ai dirigenti azzurri di drammatizzare i toni intorno al dibattito sulla decadenza: «Se la sinistra pensa di sbattermi fuori dal Parlamento senza pagarne le conseguenze, avanti, si accomodino. Lo sappia soprattutto Enrico Letta, che ci tiene tanto alla sua poltrona da presidente del Consiglio...».   Al termine dell'incontro con il ministro dell'Interno, i due decidono che è il momento di stanare il Partito democratico. Alfano invita la sinistra a prendersi la sua responsabilità: «Abbiamo fornito numerosi pareri di giuristi insigni, personalità neutre e al di là di ogni appartenenza, che confermano la inapplicabilità al passato della legge Severino. Il Pdl ha il diritto di conoscere la posizione del Partito democratico per potere orientare le proprie decisioni».  Tirare la corda, è la strategia. Anche se nel Pd sono certi che ad Arcore si stia bluffando. E che l'ex premier non avrà il coraggio di buttare giù l'esecutivo, precipitando il Paese nell'ignoto. Oggi si riunirà al Senato il gruppo parlamentare azzurro. È l'occasione per studiare le mosse in vista della riunione della Giunta per le elezioni in programma il  9 settembre. Con molta probabilità Silvio non sarà alla riunione con i suoi senatori. Ma il capogruppo Renato Schifani  ha già fatto capire che il Pdl non scherza affatto. Ieri il  presidente dei senatori azzurri è stato molto drastico nelle sue posizioni, a testimonianza dell'inasprirsi del clima nella maggioranza man mano che si avvicina la data segnata in rosso sul calendario. Schifani ha preso di mira quei senatori che, prima di leggere le carte relative alla decadenza berlusconiana, hanno già reso nota la propria intenzione di voto: “Silvio fuori!”. Il capogruppo pidiellino ha invitato, senza successo, il presidente del Senato Grasso a valutare l'opportunità di procedere alla sostituzione dei membri della Giunta che hanno violato il principio di riservatezza. È chiaro il riferimento al presidente dell'organo parlamentare Dario Stefano (ma non solo a lui), che in un'intervista all'Unità annunciava «tempi ragionevolmente rapidi» e «senza scappatorie elusive in giuridichese». Ma quelle che Stefano chiama “scappatoie” per gli uomini del Cavaliere sono fondate questioni di diritto. Come la vicenda della retroattività della legge Severino, che gli azzurri vogliono portare davanti alla Corte costituzionale e all'attenzione della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo per valutare se effettivamente abbia effetti penali. Ricorsi che, nei piani degli avvocati di Silvio, permetterebbero di guardagnare alcuni mesi. Peccato che anche l'area meno giacobina del Pd la pensa diversamente. A parte il lodo Violante - l'idea, esposta dall'ex presidente della Camera, per cui Berlusconi deve avere il diritto (e il tempo) di difendersi -, tra i dem si prende in considerazione una traslazione dei tempi di qualche giorno, al massimo di qualche settimana. Ma non più di questo.  Due calendari che non si sovrappongono. È proprio lì che rischia di esplodere la maggioranza che sostiene il governo Letta. Ancora Schifani: «Se il voto in Giunta dovesse trasformarsi in un plotone di esecuzione, questo sarebbe per noi un fatto politicamente inaccettabile. Se il voto dovesse essere politico, la convivenza sarebbe impossibile». di Salvatore Dama

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