Lo sfogo del Cavaliere:"Mi vogliono come il Duce,alla fine mi faranno santo"
«Vogliono farmi fare la fine di Mussolini, lo so. Ma hanno fatto male i loro calcoli, perché a me la storia darà ragione. Sarò io a vincere la guerra dei vent'anni. Mi faranno santo. Anche se dovessero condannarmi, sarò il santo martire della malagiustizia italiana». Nella notte più lunga della sua vita, alla vigilia del verdetto finale della Cassazione che quasi sicuramente oggi deciderà se confermare o meno la condanna per frode fiscale, Silvio Berlusconi ha visto riapparire a Palazzo Grazioli fantasmi simili a quelli che tormentarono il Duce a Villa Torlonia la notte del 25 luglio 1943, quando fu sconfessato dal Gran Consiglio. A settant'anni esatti di distanza, la stessa sindrome da fine impero associa i due Cavalieri, e lo stesso horror vacui nell'attesa di una sentenza definitiva. Se il futuro di Benito Mussolini era nelle mani del Re, il destino politico e umano di Berlusconi è appeso al verdetto della Suprema Corte, chiamata a confermare o meno la condanna a quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici inflitta all'ex premier lo scorso 8 maggio dalla Corte d'Appello di Milano Nel giorno dell'attesa più estenuante che lui abbia mai vissuto, Berlusconi è rimasto blindato a via del Plebiscito, letteralmente presa d'assedio da telecamere e fotografi italiani e stranieri sin dalla mattina. A Palazzo Grazioli, dove il Cav non mette il naso fuori casa da lunedì pomeriggio (quando è tornato da Milano), ha seguito passo dopo passo la requisitoria nell'udienza davanti alla sezione feriale penale della Cassazione, mentre veniva discusso il ricorso presentato dai suoi avvocati, con i quali il giorno prima si era chiuso in riunione permanente per studiare in ogni minimo dettaglio la linea difensiva imperniata sull'imperativo categorico sul quale il Cav è stato tetragono. E che ieri Franco Coppi e Niccolò Ghedini hanno annunciato di buon'ora: «Da parte nostra non ci sarà nessuna richiesta di rinvio». Ma se alla vigilia dell'udienza la residenza capitolina dell'ex premier era trasformata in un bunker, alla vigilia della sentenza finale, è tornata ad essere casa Berlusconi. Non la solita corte di Re Silvio, il quale ieri, invece, ha voluto circondarsi solo degli affetti più cari. I figli, ovviamente, e i fedelissimi. La prima ad arrivare è stata l'amatissima primogenita Marina. In serata è giunto Piersilvio. Nel pomeriggio, lo storico braccio destro Fedele Confalonieri, corso a dar manforte all'amico di una vita nel momento più drammatico della sua storia personale, professionale e politica. Tutti gli «uomini del presidente», invece, in questi giorni si sono praticamente trasferiti armi e bagagli nella residenza del Cavaliere. Denis Verdini, Paolo Bonaiuti, Sestino Giacomoni e Valentino Valentini erano a via del Plebiscito dalla mattina. Mentre Daniela Santanchè è da cinque giorni fissa al fianco di Berlusconi, che ha raggiunto al volo sabato ad Arcore da Forte dei Marmi e poi è scesa con lui a Roma lunedì. L'immancabile Gianni Letta, ha varcato la soglia di Palazzo Grazioli ieri alle 16. Ha voluto solo loro, ieri, Berlusconi, declinando gentilmente al telefono gli autoinviti dei più alti dirigenti del Pdl che si sono offerti di venire a trovarlo. Alcuni di quei pochi privilegiati che ieri hanno trascorso tutto il giorno al fianco di Sua Emittenza, lo descrivono sereno e battagliero: «Era più lui a rincuorare noi che il contrario», raccontano. Ma, con altri, nell'arco della giornata, il Cav ha alternato momenti di pessimismo, soprattutto quando, verso le 19, il procuratore generale della Cassazione, Antonio Mura, ha chiesto di confermare la condanna («visto? che vi avevo detto? hanno deciso di farmi fuori, questa sentenza è già scritta»), a slanci eroico-consolatori («non preoccupatevi per me, io non ho paura, sono pronto ad andare in carcere anche domani») conditi persino di autoironia sulla sua ipotetica sorte di galeotto («non voglio arance in cella, mi raccomando, semmai portatemi qualche bella signorina»). Il cerchio magico di Berlusconi si è spaccato quando, alle 20, è giunta la notizia della richiesta del pg Mura di ridurre da cinque a tre gli anni di interdizione dai pubblici uffici, che alcuni hanno letto come «un segnale positivo», altri (incluso il Cav) come «una provocazione» o peggio «un insulto». L'ipotesi più accreditata, al momento, nell'entourage di Berlusconi e nel Pdl, è quella di un annullamento della sentenza di condanna con rinvio in Corte d'Appello per riformulazione della pena, con conseguente decadenza dell'interdizione dai pubblici uffici e parziale prescrizione del reato. Nella tempesta umorale esasperata dal tam tam di notizie che arrivavano dal Palazzaccio, Berlusconi, però, non ha vacillato nel suo proposito di voler sostenere l'esecutivo di larghe intese. E ha continuato a predicare cautela ai suoi pretoriani che scalpitano per scendere in piazza a difendere la sua causa. «Qualunque cosa succeda, state fermi, non saremo noi a staccare la spinta al governo», ha avvertito il Cav, convinto com'è che semmai «saranno i suoi compagni a far cadere Letta». E anche se la voglia di terremotare Palazzo Chigi lo tenta, eccome, constatando ogni giorno di più che fare lo statista non gli ha giovato a nulla dal punto di vista giudiziario, Berlusconi resta convinto che lo status quo sia «il meno peggio» per lui e per le sue aziende rispetto a qualsiasi altro scenario alternativo alle elezioni. E in cuor suo continua a sperare in un intervento in extremis di Giorgio Napolitano. di Barbara Romano