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Kyenge orango, la telefonata tra Maroni e Letta: ecco perché Calderoli non si dimette

Giulio Bucchi
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Quando le agenzie di stampa rilanciano le parole di Enrico Letta su Expo e Calderoli, Roberto Maroni chiama immediatamente Palazzo Chigi. In via Bellerio non prendono bene la richiesta del premier, che invita il leader leghista a far dimettere il vicepresidente del Senato pena il raffreddamento dei rapporti governo-Lombardia per la fiera dell'esposizione. Fatto sta che il capo dell'esecutivo non risponde alla telefonata ma richiama entro un'oretta. «Il caso Expo non è un affare mio o della Lega, riguarda tutti» gli spiega Maroni. «Diciamo che anche a un democristiano come Letta possono scappare parole fuori posto...» notano in via Bellerio. Al premier, il leader del Carroccio ribadisce: «Per me il caso Calderoli è chiuso. Ha sbagliato e s'è scusato. Anche con una telefonata al ministro Kyenge» che l'ex titolare delle Riforme aveva paragonato a un orango, scatenando indignazione bipartisan. «La Lega contrasta le proposte che non condivide, ma non si devono mai insultare le persone». Però «non posso far dimettere Calderoli dalla vicepresidenza del Senato, ho troppo rispetto delle istituzioni» osserva Maroni. «È una scelta di Palazzo Madama e Donato Bruno del Pdl ha difeso Calderoli. Dovrei farlo dimettere io, che sono il segretario della Lega?». In più, in via Bellerio hanno il fondato sospetto che il polverone per l'uscita di Calderoli serva per coprire il pasticcio della kazaka espulsa dall'Italia con un volo privato. Operazione che ha coinvolto decine di poliziotti e su cui il governo ha detto di sapere nulla. «Se fosse così, sarei molto preoccupato» afferma il leader lumbard, mentre il direttore de la Padania Aurora Lussana titola il quotidiano di oggi «Kalderolistan». Per dare il senso di un partito compatto, via Bellerio ha anche annunciato una manifestazione contro l'immigrazione clandestina. Appuntamento il 7 settembre in quel di Torino. In serata, Maroni scrive un messaggio anche sui social network, ricordando che la sua Lombardia sta facendo cose concrete (vedi «un miliardo per i crediti alle imprese»), per ribadire che Milano lavora mentre a Roma si perdono in polemiche. Con un governo in imbarazzo anche su F35 e conti che non tornano. L'affaire Calderoli ha dato fiato anche ai bossiani come Paola Goisis, che ha accusato Maroni (e il leader veneto Flavio Tosi) d'essere forte coi deboli e viceversa, visto che dal Carroccio sono stati cacciati militanti per dichiarazioni molto meno devastanti. Il tutto mentre Matteo Salvini non s'è beccato neanche una tirata d'orecchie per aver invitato il Colle a tacere, dopo le bacchettate di Napolitano a Calderoli. Anche contro Salvini, il Pd invocava pene esemplari ma è rimasto deluso. «Cosa dobbiamo fare a Calderoli? Frustarlo sulla pubblica piazza?» domandano alcuni colonnelli padani nel tardo pomeriggio, con il fumo della battaglia ancora visibile. D'altronde il clima da rissa non si respira solo sull'asse Milano-Roma: sono ore di scontro anche in Lombardia. Con la Lega e il Pdl ai ferri corti. È in atto un braccio di ferro sulle nomine che contrappone il Carroccio all'anima ciellina dei berlusconiani, impersonificata dal presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo. Il quale vuole un incarico per Giancarlo Abelli, ex assessore e fedelissimo di Roberto Formigoni, che Maroni non vuole vedere neanche in cartolina. Da qui, una guerra di logoramento con ripicche continue. Risultato. Restano in sospeso alcune nomine, a partire da quella per la presidenza del Corecom (Comitato regionale per le comunicazioni) che via Bellerio vuole per sé. «Non molliamo» dice Maroni. A Milano come a Roma. di Matteo Pandini

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