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Boldrini e Grasso, basta scuse:fuori le buste paga

Pietro Grasso e Laura Boldrini

Gianfranco Fini e Renato Schifani hanno nascosto gli stipendi delle Camere. Se sono davvero "anti Casta", i loro successori ora devono svelarli

Andrea Tempestini
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Al contribuente non far sapere quant'è alto lo stipendio del consigliere. Le mura di Montecitorio e palazzo Madama sono ben insonorizzate e chi escedalì tiene la bocca cucita. Non una voce filtra fuori araccontarela pacchia di buste paga, ferie facili e pensionamenti anticipati che Libero ha svelato in questi giorni. «Trasparenza », «casa di vetro» e «spending review» sono solo promesse, slogan con cui i presidenti delle Camere (quelli attuali e coloro che li hanno preceduti) amano riempirsi la bocca ogni volta che si affronta la questione del trattamento economico dei 2.392 dipendenti di Camera e Senato. La prassi costante è l'esatto contrario: una congiura del silenzio finalizzata a mantenere tutto come è adesso. Una situazione che Laura Boldrini e Pietro Grasso, presidenti delle Camere, non capiscono o non vedono. O capiscono benissimo, mafingono dinonvedere. C'è una storia, iniziata oltre un anno fa, che spiega bene tante cose. Erailmarzo del2012eilgoverno Monti, insediatosi quattro mesi prima, aveva avviato l'«opera - zione trasparenza» pubblicando onlineredditi e patrimoni del presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Difficile, per il Parlamento, fare finta di nulla. Occorreva produrre qualche risultato. O almeno dare l'impressione di provarci.  Presidente della Camera era Gianfranco Fini. Il quale quel mese riunì due volte l'ufficio di presidenza di Montecitorio, proprio per decidere la pubblicazione sul Web dei trattamenti retributivi dei dipendenti. Non la semplice indicazione dello stipendio iniziale dei diversi livelli, che si può trovare anche adesso sul sito della Camera (primo livello, operatore tecnico, 1.491,16 euro netti; quinto livello, consigliere parlamentare, 2.920,44 euro netti...). Simili cifre, infatti, non dicono nulla. Perché ciò che rende unico lavorare in Parlamento è la rapidità con cui le buste paga lievitano al crescere dell'anzianità, giungendo a moltiplicarsi per quattro o cinque volte. Un telefonista (operatore tecnico) assunto oggi, ad esempio, nel primo anno di lavoro avrà un reddito imponibile di 30.351 euro, ma il suo collega che ha alle spalle un quarto di secolo di servizio, negli stessi dodici mesi, sarà pagato l'enormità di 111.315 euro: 3,7 volte di più. Ancora più ripida l'ascesa per i consiglieri parlamentari: oggi un neoassunto guadagna nel suo primo anno di lavoro un imponibile di 64.815 euro, mentre chi è lì già da 25 anni ne incassa 290.660: l'anzianità, in questo caso, moltiplica la busta paga di 4,5 volte. Enon finisce qui. Quando il dipendente raggiunge l'ultima classe della carriera, cosa che di norma avviene proprio al compimento del venticinquesimo anno di servizio, gli aumenti si fanno ancora più generosi: la busta paga lievita del 2,5% ogni biennio. Ad eccezione del primo, nel quale l'aumento è del 5%. Lo stesso aumento biennale del 2,5% si applica allo stipendio iniziale del segretario generale della Camera, Ugo Zampetti, e a quello dei suoi due vice, Guido Letta e Aurelio Speziale. Per tutti, ovviamente, vale anche l'aumento “normale” della busta paga, calcolato sulla base dell'inflazione. Così, in quelle due riunioni, svoltesi il 15 e il 29 marzo del 2012, l'ufficio di presidenza decise di mettere online gli stipendi dei dipendenti della Camera.  Non indicandoli per nome e cognome, per carità,ma comunquefotografando la situazione al momento dell'assunzione e al raggiungimento del venticinquesimo anno di servizio. Il presidente Fini, si legge nel verbale del 15 marzo, «ritiene che la pubblicazione sul sito di tali informazioni possa trovare realizzazione in tempi brevi». «Sennonché», racconta adesso uno di coloro che erano presenti, durante la seconda di quelle riunioni «si decise che si sarebbe provveduto alla pubblicazione solo se il Senato avesse fatto lo stesso». Nel verbale del 29 marzo in realtà si legge che il presidente Fini «ribadisce, d'accordo il Segretario generale», ovvero Zampetti, «l'indirizzo di procedere in tempi brevi alla pubblicazione di tali dati, secondo modalità che saranno definite dal Collegio dei deputati Questori, auspicabilmente in raccordo con il Senato». Non un obbligo vero e proprio insomma, ma un semplice auspicio. Fini scrisse dunque una bella lettera a Renato Schifani, presidente del Senato, informandolo delle intenzioni della Camera e chiedendogli, in sostanza, diconvocare l'ufficio di presidenza di Palazzo Madama per deliberare la stessa cosa. Ma da Schifani non giunse alcuna risposta. Non solo. Zampetti, sebbene non fosse tenuto a farlo, giacché la cosa non riguarda il contratto dei dipendenti, decise anche di sottoporre la questione alle undici sigle sindacali di Montecitorio. Le quali, come era prevedibile, si dichiararono del tutto contrarie. Morale: il silenzio del Senato (il cui consenso all'operazione, come visto, ufficialmente non era obbligatorio) e il niet dei sindacati (che pure non avevano alcun reale potere di veto) bastarono a fermare l'«ope - razione trasparenza» che Fini si era impegnato a realizzare «in tempi brevi». La questione morì lì: la congiura del silenzio aveva vinto.  Da allora, in teoria, dovrebbe essere cambiato qualcosa. Intanto è stato varato un decreto sulla trasparenza (n. 33/2013) che obbliga le amministrazioni statali a pubblicare gli stipendi dei propri dirigenti. Vero, tale obbligo non riguarda gli organi costituzionali come Camera, Senato, Consulta e Quirinale, ma dovrebbe comunque servire da stimolo a queste amministrazioni affinché diano l'esempio. Soprattutto, al posto di Fini e Schifani oggi ci sono Boldrini e Grasso. «Né io né Grasso apparteniamo alla Casta», disse la presidente di Montecitorio appenainsediata. Aggiungendo che «il Paese ha bisogno di cambiare». Bene, se non l'hanno capito il momento è questo. I presidenti delle Camere credono davvero alla trasparenza? Ritengono giusto far conoscere a tutti i cittadini i redditi del personale del Parlamento durante l'intero arco della carriera, e cioè anche quelli di chi ha quarant'anni di servizio? Pensano che i contribuenti, ovvero i finanziatori coatti dei loro stipendi e dei loro costosissimi apparati, abbiano il diritto di conoscere i criteri che regolano la progressione delle buste paga e la concessione delle ferie e consentono ai dipendenti di smettere di lavorare anni prima dell'entrata in pensione, come mostrato da Libero? O sonoconvinti, al pari dei sindacati, che gli italianidebbano nonsapere?  di Fausto Carioti

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