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Pansa: Ho visto nel futuro del Pd, la Bindi si sposa

Bersani si ritira e apre un'osteria, Nico Stumpo si dà al fitness e Stefano Fassina si vende al capitalismo

Giulio Bucchi
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Forse nessuno ricorda come andò a finire la crisi al vertice del Partito democratico, ma il Bestiario ha ben chiaro in mente che cosa accadde. Tutto avvenne all'improvviso e a causa di una faccenda che lì per lì era sembrata senza importanza. All'inizio del luglio 2013 Fabrizio Barca, già ministro della Coesione territoriale nel governo di Mario Monti, concesse un'intervista a Sette, il supplemento del Corriere della sera. Le opinioni di Barca, raccolte da Vittorio Zincone, vennero  presentate  con un titolo che diceva: «Renzi deve imparare a comandare».  Sulle prime sembrò una bizzarria, vista la distanza che separava il sindaco di Firenze da Barca. Erano entrambi iscritti allo stesso partito, il Pd, ma sembravano il diavolo e l'acquasanta: Matteo un liberale inclinante a sinistra cresciuto nella vecchia Democrazia cristiana, l'ex ministro un neo marxista dalle idee non sempre facili da capire. E invece Renzi restò folgorato dall'incitamento di Barca. Volle subito incontrarlo e lo cercò, con l'aiuto di Enrico Letta, il presidente del Consiglio.   Verso la fine di luglio, i tre si videro in un agriturismo di Cetona, in provincia di Siena. Fu un incontro protetto da una cortina di riservatezza tale che sfuggì anche ai media più accorti. Ma in quel casolare di campagna vennero gettate le basi di un accordo in seguito conosciuto come il Patto dei tre Capi. Era una spartizione di poteri che assegnava a Letta la guida del governo, a Renzi il comando totale sul partito, a Barca l'incarico di destabilizzare sul piano culturale il vertice del Pd, ormai alla canna del gas.  La vera sorpresa del patto fu la decisione di Renzi di occuparsi del partito, invece di cercare la candidatura a Palazzo Chigi. La sua fu una scelta di grande saggezza, originata da una constatazione: al governo c'era già Letta che stava facendo bene e sarebbe stato un tragico errore mandarlo a casa. Meglio occuparsi del partito e liquidare tutti i capi e i capetti democratici. Renzi non poteva soffrirli. Li riteneva una nomenklatura di dinosauri, capaci soltanto di tagliare le gambe a un concorrente pericoloso.    Fu dunque con un pizzico di sadismo che il sindaco di Firenze si trasformò in un epuratore senza pietà. Con l'aiuto di Letta e di Barca, ben felici di poter svecchiare il Pd e cancellare tanti ras di prima e seconda fila, pronti a tentarle tutte pur di non perdere una briciola del vecchio potere.  L'epurazione attuata da Renzi si sviluppò negli ultimi tre mesi del 2013, con esiti sbalorditivi. E obbligò la parte alta della Casta democratica a cambiare vita. Per molti il mutamento causò incontri inaspettati. Uno dei più sorprendenti fu quello fra  Massimo D'Alema e Renato Brunetta, messo da parte all'improvviso dal segretario del Pdl, Angelino Alfano.  Un giorno Max e Renato si videro a pranzo nel ristorante di Montecitorio e scoprirono di essere i più cattivi del Parlamento. Cominciarono a parlare tra loro come non avevano mai fatto. E decisero di sfruttare il lato carogna del carattere che li accomunava. Allestirono un corso di cattiveria per politici troppo buoni. Poi lo trasformarono in un istituto che rilasciava un master in carogneria. Infine scrissero un manuale che divenne subito un best seller. Titolo: «Uccidi il tuo avversario. La cattiveria ti fa vincere».  Sul piano privato, il mutamento più sconvolgente fu quello di Rosy Bindi. Ormai disoccupata, si ritirò a Sinalunga, il borgo natio. Qui si guardò intorno e scoprì uno spasimante mai preso in nota. Era il marchese Rodolfo di Tacco, viveva nel castello di Radicofani e discendeva in linea diretta dal brigante gentiluomo Ghino di Tacco, il personaggio che aveva ispirato le mosse più dure di Bettino Craxi.  Il marchese Rodolfo era un settantenne molto in forma, uno scapolone sciupafemmine che si era innamorato della Rosy. Lei lo respinse indignata perché intendeva restare vergine. Ma la corte tenace di Rodolfo ebbe la meglio. Dai e dai, la Bindi cedette alle avance del nobiluomo e accettò di sposarlo. Il matrimonio fece epoca nell'intera Val d'Orcia. Diventata la marchesa di Tacco, la Rosy impose il proprio potere su un lungo tratto della via Appia. Cominciando con il proibire il transito di tutti i viandanti sospettati di essere tifosi di Renzi.  Pier Luigi Bersani rinunciò alla politica e si ritirò nel paese natale, a Bettola, provincia di Piacenza. Qui aprì un ristorante e lo chiamò «Il tacchino sul tetto», in onore di una vecchia metafora usata quando era segretario dei Democratici. L'impresa ebbe un successo formidabile. Cucina superba e inappuntabile servizio in sala. Chi c'era a guidarlo? Il piacentino Migliavacca, già braccio destro di Pier Luigi ai tempi della segreteria. Bersani avrebbe voluto con sé anche il massiccio Nico Stumpo, ex capo dell'organizzazione democratica, il superburocrate che aveva fottuto Renzi nelle primarie del novembre 2012. Ma Stumpo si era dedicato a realizzare il sogno della sua vita: aveva aperto a Roma, nel quartiere del Testaccio, una palestra per signori di mezza età e sovrappeso. La trovata fu di avere soltanto dei personal trainer femmine, tutte robuste e molto spicce. E di fare uno sconto del 30 per cento a chi presentava una tessera democratica dell'epoca pre-Renzi. In pochi mesi il compagno Nico divenne ricco.  Ma non tutte le vie di fuga dei big democratici si rivelarono tanto fortunate. Stefano Fassina si vide costretto ad accettare l'incarico che un tempo era stato di Laura Boldrini: il funzionario dell'Onu a Lampedusa, incaricato di assistere i migranti che sbarcavano nell'isola. Ma il buon Fassina era sempre così triste e macilento da essere scambiato per un profugo.  Una sera, l'inviato della Cnn americana lo intervistò presentandolo come un migrante appena sbarcato dalla Libia. Fassina tentò di spiegare che era l'inviato dell'Onu a Lampedusa, ma non ci fu verso di convincere il cronista della Cnn. L'incidente fece la fortuna del povero Stefano. Venne segnalato al capo supremo della Fiat, l'implacabile Sergio Marchionne. Convocò Fassina e gli offrì un ricco contratto da capo economista a Detroit. Stefano lo accettò e passò nel campo dei padroni.   I Giovani turchi di Orfini & Civati ebbero vita breve. Matteo Renzi li cancellò con un tratto di penna. E quando protestarono li mise a tacere con un consiglio brutale: «Andate in Turchia e provate a vedere se siete dei veri turchi!». Un osso ben più duro si rivelò un altro gruppo: le «Amazzoni rosse», nato per imitazione delle Amazzoni azzurre di Silvio Berlusconi.  Le rosse avevano scelto come guida una sperimentata dirigente del Pci e poi democratica: Livia Turco, una cuneese tostissima, reduce da una vittoria elettorale in Albania. Con lei c'erano la Finocchiaro siciliana, la Moretti vicentina, la De Micheli piacentina nonché fresca sposa, la Puppato già sindaco di Montebelluna. Alcune di loro erano molto note perché assai richieste dai talk show televisivi. E questo le aveva convinte di essere invincibili.  Ma quel furbone di Renzi conosceva il loro lato debole: erano propense a litigare. Introdusse nel gruppo delle Amazzoni rosse un paio di deputate del proprio gruppo con l'incarico di fare le quinte colonne, ossia di eccitare la rissa. La storia delle Amazzoni si concluse quasi all'istante nel caos.  A salvarsi dall'epurazione renziana furono soltanto un paio di capi democratici che venivano dal vecchio Pci. Uno di loro era Piero Fassino, diventato il leader dell'Anci, i comuni italiani. L'altro era Walter Veltroni. Più astuto di tutti, avvisò Renzi di non nutrire più nessuna velleità politica. Aveva scoperto il piacere di scrivere libri. E come autore della Rizzoli seguitò ad avere un successo che lo ripagò di tante amarezze.  di Giampaolo Pansa

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