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Ecco come ho creato il mostroche è diventato il guru di Grillo

Paolo Becchi

Il vicedirettore di 'Libero': "Ho accolto gli attacchi di Becchi contro euro, Ue e Napolitano. Così gli ho dato notorietà, e radio e tv hanno iniziato a invitarlo"

Andrea Tempestini
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  di Massimo de' Manzoni Devo confessare un grave peccato ai lettori. Se mediaticamente esiste un professor Paolo Becchi; se un maturo docente barbuto si aggira per i vari talk show televisivi con la frequenza di un Mario Monti in campagna elettorale, sparando cazzate dai danni valutabili solo nel medio periodo; se giornali che si ritengono seri e affidabili lo intervistano come un oracolo; se schiere di web dipendenti inneggiano ai suoi sproloqui, la colpa è anche mia. Sissignori, io sono in qualche misura il Frankenstein del «mostro» Becchi. E porto in particolare il peso dei suoi inni giustificazionisti nei confronti di Luigi Preiti, lo spregevole individuo che ha sparato ai due carabinieri davanti a Palazzo Chigi, rischiando, Dio non voglia, di ridurre il brigadiere Giuseppe Giangrande su una carrozzella per il resto dei suoi giorni.  Per il mio crimine ho delle attenuanti. E come in molti delitti che si rispettino, ho avuto un complice. Un collega illustre: Stefano Lorenzetto. E fiancheggiatori altrettanto prestigiosi: in ordine di apparizione, Mario Giordano,  Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro. Ma è inutile fingere: so bene che, alla fine, io sono il principale responsabile. Andò così. Eluana Englaro era morta da poco, ancora infuriavano le polemiche sull'eutanasia strisciante introdotta dai giudici in assenza di una legislazione precisa e il Parlamento, almeno a parole, si accingeva a por mano alla materia. Il Giornale, di cui Giordano era direttore e io il vice, si era apertamente schierato contro la decisione del papà di Eluana e dei giudici. Lorenzetto intervistò sull'argomento questo professor Becchi, docente di Filosofia del diritto a Genova, autore di un controverso libro sulla morte cerebrale, il quale entrò così a far parte della sensazionale e variopinta galleria dei «Tipi italiani». Come spesso accade con i suoi personaggi, Lorenzetto rimase in contatto con lui anche dopo la pubblicazione dell'intervista e un bel giorno mi chiamò in redazione: «Becchi avrebbe piacere di collaborare con noi. Ha idee forti ma pare abbastanza in linea con il Giornale.  E, credimi: scrive in italiano!». Particolare, quest'ultimo, niente affatto scontato e assai allettante per un vicedirettore costantemente alle prese con testi non precisamente adamantini. E poi c'era il sigillo accademico, altro dettaglio sconsideratamente ipervalutato nei quotidiani.  Dopo aver parlato con Giordano, chiamai dunque il docente genovese. Al telefono lo trovai verboso ma simpatico. Il pezzo che fece seguito alla nostra conversazione era altrettanto verboso, molto meno simpatico, ma argomentato ed effettivamente consono alla linea del giornale sul fine vita, seppure un tantino sopra le righe nei toni. Lo misi in pagina classificandolo come un intervento una tantum. Errore. Becchi era tipo appiccicoso e tornò alla carica più volte. Prima sullo stesso argomento. Poi, esauritosi il filone, passò inopinatamente dall'etica all'economia. Spediva l'articolo senza preavviso, poi tempestava di telefonate o sms per caldeggiarne la pubblicazione. Aveva teorie molto tranchant, talvolta non prive di fondamento nelle premesse ma particolarmente semplicistiche nelle conclusioni. Nel frattempo era cambiata la direzione del Giornale: via Giordano, tornato a Mediaset, era arrivato Feltri. E la crisi economica cominciava a mordere il Paese ai polpacci. Cassai alcuni articoli di Becchi per manifesta irrilevanza, ne pubblicai altri perché comunque potevano costituire una base di discussione. Poi passai a Libero e al professore non pensai più. Altro errore. Tempo pochi mesi e mi chiamò al cellulare. Mi spiegò che da quando me n'ero andato aveva perso i contatti con il Giornale e che nessun altro quotidiano voleva pubblicare i suoi scritti, giudicati troppo radicali. Facendo fede al nome della testata e alle mie volterranee convinzioni (posso non condividere una parola di quel che sostieni, ma mi batterò alla morte perché tu continui a farlo), previo via libera del direttore Belpietro, tornai ad accogliere in pagina i suoi attacchi al presidente Napolitano, all'euro, all'Unione europea. Ripeto: in quanto andava vergando il cattedratico c'erano anche spunti validi. A lasciare perplessi erano l'eccessiva e non di rado fuorviante semplificazione e la violenza verbale. Diciamo che il grillino che c'era in lui era facilmente intuibile. Forse meno la deriva da Toni Negri dei poveri. In ogni caso, tale preveggenza molto difficilmente avrebbe fatto scattare la censura: siamo Libero di nome e di fatto, come possono testimoniare tutti i nostri collaboratori, impossibili da catalogare sotto una etichetta, spesso in disaccordo tra loro e con la linea del giornale, eppure assolutamente liberi, per l'appunto, di esprimere la loro opinione su queste colonne, senza che venga loro cambiata una virgola. Fatto sta che la pubblicazione di alcuni articoli sul nostro giornale - in certi casi tra la malcelata disapprovazione dei capiredattori centrali Giuliano Zulin e, soprattutto, Martino Cervo - è valsa a Becchi un'improvvisa notorietà. Importanti trasmissioni radiofoniche e televisive hanno preso a invitarlo perché sparasse contro Ue, moneta unica e presidenza della Repubblica. La sua barba bianca ha bucato il video e da un giorno all'altro ce lo siamo ritrovati da grillo parlante a ideologo del grillismo. Con l'imperdonabile aggravante dell'apologia del tiro ai carabinieri. Va da sé che, da quando è sbarcato in prima serata, non si è più fatto vivo con noi. A parziale consolazione per il mio misfatto, ho la matematica certezza che una cosa simile alla Repubblica o al Fatto non sarebbe mai potuta accadere. Nella loro monolitica convinzione di essere il Verbo, l'alieno l'avrebbero immediatamente espulso. Anzi, non l'avrebbero neppure preso in considerazione. E questo, per induzione, è il mio alibi, signori della Corte: se ciò che ho fatto è qualcosa di inconcepibile per i colleghi con la verità in tasca, non può essere del tutto sbagliato.    

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