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Tutte le spaccature in Pd e Pdl:maldipancia per il governo Letta

Angelino Alfano

Andrea Tempestini
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    di Fausto Carioti Massimo D'Alema, Renato Brunetta e Mario Monti avevano tutte le carte in regola per stare nel governo. E sicuramente hanno spalle più larghe di quelle di tanti che stamattina giureranno al Quirinale. Invece non ci sono, al pari di altri pezzi da novanta. È la vittoria di Giorgio Napolitano, che ha voluto una lista di ministri “giovani” e “non divisivi”, a spese dei big di tutti i partiti. Ricominciare dalle nuove generazioni, meno invelenite delle precedenti, e in particolare dai quarantenni e cinquantenni di Pd e Pdl più portati al dialogo, per superare il clima da guerra civile che contrappone destra e sinistra: filosoficamente un'idea bellissima, sul cui successo conviene però dubitare sino a prova contraria.  La supremazia del Quirinale, peraltro scontata, non è l'unico tratto distintivo del nuovo esecutivo. La nascita del governo Letta segna anche la momentanea vittoria – assai meno prevedibile - di una parte del partito, quella vicina ad Angelino Alfano, sull'ala dei falchi vicini a Silvio Berlusconi. Il fondatore del Pdl aveva spinto per una composizione del governo molto diversa: voleva che ci fossero ministri politici di grande esperienza e caratura, scelti anche tra gli ex ds del Pd. La linea “verde” imposta da Napolitano e condivisa da Alfano e da Gianni Letta, che hanno insistito col Cavaliere perché portasse sino in fondo le trattative, lascia un Berlusconi deluso e diffidente.  L'ex premier non voleva nemmeno il tecnico Fabrizio Saccomanni, sino a ieri direttore della Banca d'Italia, alla guida del ministero dell'Economia. «Abbiamo già dato con i tecnici, veniamo da un governo che ha fatto disastri col suo eccesso di rigore», diceva tre giorni fa il Cavaliere ai giornalisti motivando il proprio veto su Saccomanni. Che invece da oggi è il vero uomo forte del governo, quello che promette di perpetuare l'obbedienza all'ortodossia di Bruxelles e Berlino, e quindi di non attuare l'abolizione dell'Imu che il leader del centrodestra ha promesso agli elettori. Berlusconi aveva chiesto anche la presenza tra i ministri di pidiellini di propria fiducia: Brunetta, ma anche Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. Nessuno di loro, però, fa parte della squadra di Napolitano e Letta. Oltre ad Alfano, i ministri in quota Pdl sono Beatrice Lorenzin, Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello e Nunzia De Girolamo. Tranne quest'ultima, gli altri sono considerati più vicini al segretario che al Cavaliere. Di sicuro lo sono stati durante la recente vicenda di Italia Popolare, la componente del Pdl che il 16 dicembre si riunì al Teatro Olimpico di Roma per chiedere a Monti, Alfano presente, di accettare l'offerta (chissà quanto sincera) che gli aveva fatto Berlusconi: essere il candidato premier del centrodestra. Monti rifiutò, avviando così la propria rovina politica. Di Italia Popolare non si è più sentito parlare, e la spettacolare rimonta elettorale del Pdl, trainato da Berlusconi, sembrava aver chiuso ogni dualismo all'interno del partito.  Quell'iniziativa, però, non era passata inosservata al Capo dello Stato. Nella lista dei ministri del governo Letta ce ne sono ben cinque che quel giorno salirono sul palco: oltre ad Alfano, Lorenzin, Lupi e Quagliariello, c'è il montiano Mario Mauro, all'epoca europarlamentare del Pdl. Quagliariello e Mauro erano anche stati chiamati da Napolitano tra i dieci saggi del Quirinale, dal cui lavoro prenderà il via il programma del governo. È chiaro, insomma, il tentativo di Napolitano e Letta di far emergere l'ala del Pdl più vicina ad Alfano, a scapito degli esponenti di stretta osservanza berlusconiana. Risultato ottenuto, ma a caro prezzo. Adesso c'è una parte importante del Pdl che non condivide l'appoggio al governo e ne pronostica una fine rapida. La nota pasionaria che ieri sera andava in giro dicendo «tanto questo governicchio dopo l'estate è già morto» interpreta un sentimento abbastanza diffuso nel partito. Sentimento dal quale non è immune lo stesso Berlusconi, e che rischia di deflagrare nell'istante in cui Saccomanni o Letta dovessero annunciare che l'abolizione dell'Imu sulla prima casa è impossibile. Presto, insomma, i ministri del Pdl potrebbero essere costretti a scegliere da che parte stare. Enrico Letta non  trova ragioni di ottimismo nemmeno se guarda al proprio partito. La pattuglia del Pd chiamata a far parte del governo, sebbene più numerosa (9 contro 5), è di struttura politica assai più gracile di quella del Pdl. Il pezzo grosso è Dario Franceschini, relegato peraltro a un dicastero di terzo livello come quello dei Rapporti con il Parlamento. E questo già dice molte cose. Franceschini e Letta: due margheritini, che con il renziano Graziano Delrio fanno tre. Nessun big nazionale del partito proveniente dal Pci o dai Ds è entrato nell'esecutivo, nemmeno quel Sergio Chiamparino di cui tanto si è scritto negli ultimi giorni. Il pesce più grosso tra i post comunisti di governo è il bersaniano Andrea Orlando, spedito all'Ambiente. Davvero poca roba.  Gli insulti della base stanno già facendo tremare il partito, soprattutto i parlamentari più giovani. Presto i sondaggi penalizzeranno ulteriormente il Pd per aver scelto l'“inciucio” con il Pdl. Ci sarebbe voluto un grosso calibro del partito, proveniente dai Ds, disposto a mettere la propria faccia sul governo. Invece Letta è stato mandato senza scorta in territorio ostile. Di scarsa consolazione, per lui, sapere che nessuna brutta sorpresa gli arriverà dalla pattuglia di Scelta civica. I montiani piazzano tre ministri (che diventano quattro considerando Anna Maria Cancellieri, da loro candidata per il Quirinale). Il governo ha miracolato il loro partitino, appena nato e già in via di estinzione: i veri vincitori sono loro. Peccato, per Letta, che siano così pochi: 68 tra deputati e senatori. Tutto sembra spingerli verso un'entrata nell'orbita del Pdl. Lo stesso Monti si è portato avanti col lavoro, elogiando pubblicamente Berlusconi. Ma perché questo avvicinamento vada in porto è necessario che il governo duri quanto basta a cementare i nuovi legami politici. Condizione sulla quale pochi, oggi, sono disposti a scommettere.    

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