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Pd, piano per fregare Berlusconi: governare con M5S e Sel, ma coi voti del Pdl

Grillo e Bersani

Giulio Bucchi
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di Fosca Bincher Quando Enrico Letta è uscito a capo della delegazione del Pd dall'incontro con Giorgio Napolitano ha spiegato le priorità del suo partito da inserire nel programma del governo che dovrà guidare il premier che questa mattina verrà incaricato il Capo dello Stato. In cima alla lista dei desideri Letta ha inserito due cose: «Interventi sull'economia, iniziando dal lavoro», e «condizioni diverse da trattare in Europa». Né la prima né la seconda condizione erano contenute nel testo originario del documento votato ieri dalla direzione del Pd. Sono state inserite all'ultimo, come emendamenti in extremis: quello sul lavoro su richiesta di Franco Marini, quello sull'Europa grazie a una correzione proposta dallo stesso Letta che si era dimenticato di citarla. Dunque le due priorità principali raccontate da Letta a Napolitano erano talmente prioritarie da essere infilate come cerotto nel sofferto documento della direzione Pd. È forse il segno più evidente e clamoroso del caos che oggi più che mai regna all'interno del partito principale della sinistra italiana. Assistere ieri alla riunione di quella direzione Pd in streaming era proprio come tuffarsi in un magma indistinto, che nulla più tiene insieme. Non sono stati molti gli interventi: una decina o poco più. Il documento finale da portare a Napolitano è stato votato palesemente con un plebiscito: solo 7 contrari e 14 astenuti. Era accaduto qualcosa di simile con la candidatura al Quirinale di Franco Marini (approvata a larghissima maggioranza) e molto di più con la candidatura di Romano Prodi (tutti d'accordo). Quando il Pd vota una cosa senza grandi patemi, puoi essere ormai certo che farà l'esatto opposto. Siccome non tutti sono grandi strateghi, e molti quasi alle prime armi, ieri il presagio infausto è emerso con chiarezza perfino da qualche intervento in direzione. Il più chiaro sul disastro che si sta preparando è stato il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, il bersaniano pasticcione a cui spesso però scappa la verità. Dopo avere ricordato che «una parte del nostro gruppo parlamentare non ha posto una obiezione su Franco Marini, ma sulla nostra linea politica», Fassina ha subito affondato il prossimo governo: «Oggi non possiamo mettere paletti o condizioni, ma proporre qualche suggerimento. Il primo è sul rapporto del governo con il Parlamento. Noi dobbiamo evitare quel rapporto che ha avuto il governo di Mario Monti, con decreti e fiducia su decreti. Il governo deve avere un forte ancoraggio parlamentare, perché questo ci consente di avere un dialogo con quelle forze politiche che non voteranno la fiducia all'esecutivo che si andrà a costituire». Tradotto da quel pizzico di politichese: il Pd è pronto a usare i voti del Pdl per dare la fiducia a un governo, e un secondo dopo sarà lì già a cercare sui provvedimenti una maggioranza con Sel e Movimento 5 stelle per metterla in quel posto a Silvio Berlusconi. Prospettiva entusiasmante per il centrodestra. Fassina ha aggiunto anche altro, più chiaro: «Governo tecnico o politico? Anche a me piacerebbe poterci mettere la faccia fino in fondo. Il problema è se la faccia la mettono anche dall'altra parte, che diventa molto più complicato…». Anche qui traduzione più volgare: va bene fare entrare Enrico Letta al governo, ma guai se entra un ministro di peso di Berlusconi.  Fassina ha posto le sue condizioni. Ci ha provato anche Matteo Orfini, leader dei giovani turchi. La sera prima in tv ne aveva posta una sola e chiara: «Proporrò Matteo Renzi premier». Al momento buono non si è nemmeno sognato di farlo. Ha messo su un discorso così arzigogolato e confuso che nessuno lì dentro ha capito un'acca, poi gli è scappata la parola proibita (bisognava dimostrare a Napolitano che si era tutti buoni e ci si metteva nelle sue mani): «Paletti». Appena detto «noi abbiamo il dovere di chiarire quali sono i paletti…» è venuta giù una selva di fischi e il povero Orfini non ha potuto proseguire. Lo ha aiutato Rosy Bindi che presiedeva e per continuare il turchino Pd ha corretto i «paletti» in «responsabilità»: «ehm, dobbiamo chiarire quali sono le responsabilità che il Pd ha il dovere di prendersi. Dobbiamo farci carico di quella richiesta di novità che viene dalla società…». Orfini almeno si è astenuto. Come Pippo Civati, che di solito dice no a tutto. E come pure la Bindi che in sostanza ha detto di no a un governo politico. A dire no sono state Laura Puppato, quella del partito liquido che sta per sciogliersi e trasferirsi in Sel e pochi altri. Gran parte delle truppe anche dei colonnelli incerti ieri hanno detto sì. C'è sempre tempo per fucilare il nuovo governo prima che chieda la fiducia alle Camere.  Questo è stato il cuore della direzione Pd di ieri. Poi c'è stato altro. Bersani che ha confermato le dimissioni e si è tolto più di un sassolino dalle scarpe, anche nei confronti della presente Debora Serracchiani che diceva di non avere capito quel che mille volte era stato spiegato (come le candidature Marini e Prodi). Dario Franceschini che con coraggio ha spiegato a turchi e grillini come e perché li manda tutti a quel paese. Anna Finocchiaro che ha punto con veleno nella stessa direzione. Franco Marini che è sembrato un gigante in un partito di nani. Non si è levato nessun sassolino. Ha provato a insegnare cosa è la politica e spiegare loro come l'Italia sta morendo mentre quelli discutono di sciocchezze. Ha usato una parola che sembra arabo nel Pd di oggi: «il principio di realtà». Ma di realtà di carne, ossa e sangue da quelle parti ne è rimasta assai poca.

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