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Renzi, rottamato dal suo tatticismo

Il sindaco di Firenze ha affossato Marini perché temeva che lo portasse a un governissimo, ha detto sì ad Amato e Prodi per affondare Bersani

Lucia Esposito
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  di Massimo De' Manzoni Nel delitto in famiglia che ha fatto fuori Romano Prodi ci sarebbero pure le impronte digitali dell'enfant prodige del Partito democratico, Matteo Renzi, il quale aveva platealmente puntato le fiches su Romano ma, a quanto mormorano nel Pd, nel segreto dell'urna  le avrebbe fatte sparire. Sarà vero? Diciamo che è plausibile. Almeno alla luce delle ultime mosse del sindaco di Firenze, come minimo spregiudicate. Tali da suscitare un moto di ripulsa anche in chi, come chi scrive, aveva guardato con simpatia alla sfida da lui lanciata a Pier Luigi Bersani, aveva sperato che riuscisse, che gli permettesse di trasformare il Pd da un irrisolto coacervo postcomunista col trucco in un moderno partito laburista. Ma il percorso del sindaco di Firenze si è fatto via via più tortuoso, le sue acrobazie sempre più temerarie. Il risultato è imbarazzante: sembra D'Alema. Per esempio: può gentilmente spiegarci, l'uomo nuovo della politica italiana, perché Romano Prodi e Giuliano Amato sì e Franco Marini no? Qual è il criterio che lo spinge a promettere i suoi voti al Dottor Sottile o a Mortadella e a scatenare invece la guerra nucleare sull'ipotesi che al Colle si insedi il Lupo Marsicano? L'età? I primi due sono più «giovani» di un pugnetto d'anni e comunque abbondantemente sopra il limite della pensione. L'anzianità di servizio nelle file della Casta? Beh, in questo caso forse l'ex sindacalista abruzzese ha dei crediti da vantare rispetto agli eterni Prodi e Amato: boiardi di Stato, politici di lunghissimo corso, collezionisti di poltrone di ogni genere e specie. Le ombre del passato? Anche qui, non c'è match: Marini uscì da Tangentopoli immacolato, Amato inseguito dai sospetti di chi l'aveva visto per anni fianco a fianco di Bettino Craxi, salvo poi scoprire che il segretario era il Ladrone d'Italia e il suo braccio destro un giglio che nulla sapeva e di nulla si era accorto. Quanto al professore bolognese, nei corridoi del tribunale di Milano rotola ancora l'eco del furibondo interrogatorio, con minaccia d'arresto, al quale fu sottoposto da Antonio Di Pietro, che poi non diede seguito (dopo un intervento dell'allora presidente Oscar Luigi Scalfaro, opportunamente sollecitato) e di lì a pochi anni fu fatto ministro proprio dal balbettante bersaglio della sua inquisizione. Per tacere dei misteri che tuttora circondano il rapimento Moro: quella seduta spiritica dalla quale uscì il nome del covo-prigione: «Gradoli». Una storiella alla quale non credono neppure i nipotini del Professore. I danni arrecati al Paese? Certo Marini ne ha fatti: era sindacalista, che diamine. Ma niente di paragonabile a quel che ha combinato Amato: basterebbe il furto con destrezza operato nottetempo nei conti correnti degli italiani a regalargli il primato. Prodi, poi, è fuori concorso. Da presidente dell'Iri, l'ex consulente di Goldman Sachs ci ha fatto rimettere una montagna di quattrini con la cessione delle partecipazioni nelle banche, ha svenduto l'Alfa Romeo, ha tentato di fare lo stesso con la Sme. Ma soprattutto ci ha fatto entrare nell'euro accettando un tasso di cambio che ha tagliato le gambe alle nostre imprese e alle famiglie. E allora, per quale motivo il rottamatore si fa andar bene il Giuliano meno amato d'Italia e stravede per il rottamato (dalla sua stessa maggioranza) Romano da Bologna? Ripeto: qual è il criterio? La fastidiosa sensazione è che non ci sia. O, peggio, che sia unicamente il proprio tornaconto: Amato sì perché spacca il partito e mette in difficoltà il mio nemico Bersani; Prodi sì perché porta alle elezioni subito e mi dà il modo di correre da candidato premier (o, in subordine, perché lo posso impallinare e giocare di sponda con D'Alema); Marini no perché rischia di aprire a un governo di larghe intese e  lasciarmi a Firenze per chissà quanto tempo ancora. Beh, complimenti signor Renzi. Magari il colpo le riuscirà anche e alla fine si prenderà il piatto. Ma in confidenza (non richiesta): non c'era mica bisogno di aspettare il sedicente Blair italiano per assistere a queste manovrette tattiche. E senza certo il bisogno di scomodare Nicolò Machiavelli: basta rivolgersi ad Andreotti, di cui il «suo» Prodi fu ministro in era giurassica, oppure chiedere a De Mita e Forlani, che a loro volta condivisero le fatiche di governo con l'ex presidente della Commissione Ue. Erano pure meno smaccati di lei. Altra confidenza (sempre non richiesta): forse non se n'è accorto, ma il partito su cui lei sta per mettere le mani non solo non assomiglia neanche lontanamente a quello leggero, pragmatico e liberal che, stando alle sue parole, lei vorrebbe. Ma è addirittura peggiore di quello al quale voleva dare la scalata l'inverno scorso. Con la classica eterogenesi dei fini, le primarie di cui lei si è fatto portabandiera, da eccellente strumento sono diventate mito, sono state estese pure alla scelta dello spazzolino da denti da raccomandare agli iscritti e hanno prodotto la pattuglia parlamentare più estremista da una ventina d'anni a questa parte. Sì, perché come lei ha sperimentato sulla sua pelle, con il giudizio affidato ai militanti nella sinistra italiana vince sempre il candidato più radicale. Così si ritroverà magari leader, però ostaggio alla Camera e al Senato di un esercito di democratici-grillini e nelle piazze di manipoli girotondini convinti che Marini sia un pericoloso fascista. E non potrà mettere in pratica nessuna di quelle belle idee di cui ha riempito gli schermi tv negli ultimi mesi. Un capolavoro. Del resto, come diceva il compagno Bersani a Casini? «Di tattica si può morire». Vale anche per i sindaci toscani.  

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