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Pd, Prodi silurato. Il killer è D'Alema, ma non solo lui

Giulio Bucchi
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di Franco Bechis    Il gesto più clamoroso l'ha compiuto a tarda sera Pier Luigi Bersani: il segretario del Pd non ce l'ha fatta più a reggere. E ha offerto le sue dimissioni dalla segreteria del partito. Il caso Prodi l'ha ucciso. Poche ore prima stessa decisione l'aveva compiuta Rosy Bindi, amica personale e ovviamente sostenitrice politica sia di Franco Marini che di Romano Prodi. Mentre tutti aspettavano che rotolasse la testa di Bersani dopo la disastrosa gestione delle prime quattro votazioni per il presidente della Repubblica, è stata la Bindi ad auto ghigliottinarsi, dimettendosi dalla presidenza del partito. Lei ha spiegato di avere preso la decisione già il 10 aprile scorso, consegnando a Bersani una lettera formale da rivelare solo al momento opportuno. Dopo l'assassinio della candidatura di Prodi, il momento è arrivato. La prima deflagrazione di un partito che si sta disintegrando. «Dovevamo anche noi inventarci come ha fatto Nichi Vendola un segnale di riconoscimento dei voti, per blindare i traditori», sbraitava nel cortile di Montecitorio il povero Pippo Civati, travolto dagli eventi dopo avere ostentato sicurezza fin dal primo pomeriggio. «Adesso devo scappare, perché devo comprare almeno una camicia pulita per domani. E forse perfino un vestito! Pensavo di tornare a casa stasera, e invece…». Sono tutti pugili suonati i parlamentari del Pd, nemmeno in grado di capire da dove sono arrivati più di cento pugni imprevisti. Per tutti la candidatura di Romano Prodi doveva essere quella che rimetteva insieme i cocci di queste settimane. Il padre fondatore dell'Ulivo, l'uomo che ha messo insieme le anime della sinistra sempre così divise. Quello che ha inventato il centrosinistra, lo ha portato a palazzo Chigi, nelle stanze del potere. Un padre che già due volte era stato accoltellato alle spalle, e verso cui questa volta c'era da attendersi almeno un po' di riconoscenza. Peggio di così non poteva proprio finire. «Non so cosa dire, non capisco più nemmeno se c'è un partito», sibilava sottovoce scendendo la pedana nel cortile di Montecitorio un politico dai modi garbati e di esperienza come Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, «non so proprio. Per fortuna mi sono iscritto alla Spi Cgil, la confederazione dei pensionati. Quella almeno spero che tenga». Sono in pochi quelli che si concedono a taccuini e microfoni. Uno lo becchi sul divano del Transatlantico, dove ha seguito con telefonino e iPad lo spoglio dei voti. È Giuseppe Fioroni, ex popolare e sponsor della candidatura di Franco Marini insieme a Dario Franceschini. Ha il volto terreo, non si capacita di quel che è successo. Si sente perfino sospettato, perché i franchi tiratori vengono dal tam-tam individuati proprio nelle fila degli ex popolari e dei dalemiani. Tira fuori il telefonino e mostra una foto della sua scheda con il nome di Prodi. Anche quella istantanea mostra cosa è diventato il Partito democratico: una giungla dove nessuno si fida più del suo vicino. Nemmeno nei tempi più sanguinolenti della guerra fra le correnti Dc si era mai vista una cosa così. «Sinceramente no, non ricordo episodi di questo tipo», confessa un esperto della materia come Paolo Cirino Pomicino che è arrivato lì per godersi lo spettacolo. Le varie anime del Pd si accusano l'una con l'altra. «Noi non siamo stati, non avremmo avuto alcuna convenienza», assicura con lunghi ragionamenti il renziano Roberto Giacchetti. Ma sa che i sospetti ricadono anche da quelle parti. Basta ripercorrere il film delle ultime ore. È  stato Matteo Renzi uno dei primi a lanciare la candidatura Prodi. Quando Bersani l'ha sposata ieri mattina all'assemblea dei gruppi al cinema Capranica, e stava per essere proposta ai voti con alzata di mano, sono stati proprio i renziani a impedirlo. Come? Con una delle tecniche più classiche: iniziando con le ola e i battimano in modo che passasse per presunta acclamazione e nessun dissenso potesse venire alla luce. Nessun dissenso e naturalmente nessun sospetto su trame e maldipancia. Trappola perfetta. Con il suggello serale: quando nessuno nel Pd riusciva ancora a balbettare qualcosa dopo la tramvata della quarta votazione, è stato Renzi a uscire bello bello da palazzo Vecchio annunciando ai taccuini dei cronisti che la candidatura di Prodi era ormai da considerare defunta. Solo a tarda sera è stata effettivamente ritirata dal diretto interessato. «Sono stati i giovani», prova a spiegarsi invece il deputato milanese Emanuele Fiano, «troppo inesperti, troppo condizionati da Facebook e da Twitter, dove non è che si esultasse per la scelta di un candidato della vecchia guardia come Prodi. Forse quello che è avvenuto oggi è un po' la conseguenza delle primarie…». Tutti individuano nel gruppo dalemiano la regia dell'agguato, ma - dice Civati -  «quello era previsto sì, non di queste proporzioni. Al massimo una ventina o una trentina di defezioni, fisiologica». Insomma, non sanno nemmeno chi è il nemico interno. Semplicemente non capiscono. Alle otto di sera attraversa il gruppo una domanda: «Ma chi lo dice a Prodi?». La facciamo a Guglielmo Epifani: «Ah non guardate me! Non questo. Lo farà chi lo ha avvisato stamattina». Chi? Lo spiega Velina Rossa: «Prodi è stato contattato dall'unico che aveva il suo numero nel Mali». Il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando.          

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