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L'ultima fregatura dei tecnici farà saltare un'impresa su due

Per restituire i crediti lo Stato ridurrà la spesa e quindi le commesse agli stessi fornitori. Promessi solo 40 miliardi sui 90 di debiti complessivi

Lucia Esposito
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Franco Bechis Poco meno di un anno fa, il 22 maggio 2012, Mario Monti tornò dall'Emilia devastata dal terremoto per guidare a palazzo Chigi una conferenza stampa dai toni trionfali. Fu in quella occasione che disse di avere trovato la «soluzione tecnica» con cui iniziare a risolvere il dramma di molte imprese che vantavano crediti consistenti  e assai datati nei confronti della pubblica amministrazione: Stato centrale, comuni, province, Regioni etc… Con il tono professorale di chi la sa sempre più lunga di tutti, Monti disse di avere trovato l'uovo di Colombo, assicurando che sarebbero stati smaltiti già nel 2012 pagamenti per 20-30 miliardi di euro. Non si limitò a dirlo: lo mise per iscritto in un documento che ancora oggi campeggia sul sito internet del governo. Disse di avere stanziato con  il salva-Italia almeno 5 miliardi di euro a quello scopo, e che con i nuovi decreti che con la stessa enfasi a quel tavolo avrebbero spiegato l'allora viceministro dell'Economia, Vittorio Grilli e il ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, presentò una diapositiva in cui era scritto testualmente: «nel corso del 2012 saranno sbloccati circa 20/30 miliardi per le imprese». Nel corso del 2012 quei decreti hanno sbloccato 3 milioni di euro. Alla data di oggi quella cifra è lievitata a 10 milioni di euro: lo 0,05% della cifra più bassa considerata in quella forbice. Al 99,95% quella soluzione «tecnica» trovata da Monti era dunque un bluff. In compenso un anno fa il monte-crediti delle imprese nei confronti della pubblica amministrazione era stato valutato in circa 70 miliardi di euro. Oggi la stima è di 90 miliardi di euro. La soluzione Monti dunque non solo non ha ridotto di 20 miliardi il dramma, ma l'ha ingrossato di altri 20.  Se non si tenesse presente la storia dell'ultimo anno e la serie incredibile di flop inanellati sull'economia dal governo tecnico, che ha conseguito i peggiori risultati economici da quando esiste la seconda Repubblica, e uno dei più inefficienti in assoluto, non si capirebbe lo scetticismo generale con cui è stato accolto questo secondo uovo di Colombo che il consiglio dei ministri ha presentato ieri. Scettico gran parte del mondo politico, disilluse le piccole e medie imprese (giudizio assai perplesso dato da Reteimprese) e assai prudente Confindustria, che prima di esprimersi vuole guardare in controluce con i suoi esperti il testo del nuovo decreto. Di fronte a questa situazione Monti, che non ha avuto nemmeno un istante la tentazione di chiedere scusa per la sua tragica spacconata di un anno fa, ieri ha dedicato buona parte della conferenza stampa di presentazione delle nuove norme a recitare la parte del bimbo offeso per le critiche preventive. E ha ricordato di non essere stato lui a creare il problema, ma proprio chi oggi lo critica. Questo è vero. E va riconosciuto: sono state in gran parte le norme contenute nelle finanziarie di Giulio Tremonti e di Tommaso Padoa Schioppa, a creare questo problema con la stretta di cassa alla pa e il mandato sostanziale a non pagare i fornitori. Il problema era ovvio che esplodesse prima o poi, e se oggi si ritenta una soluzione il motivo non è nemmeno troppo misterioso. Per un po' di anni le imprese hanno respirato scontando presso le banche di fiducia quelle forniture chieste dalla p.a. Con Stato ed enti locali che continuavano a non pagare, le banche hanno chiuso i rubinetti alle imprese.  Il risultato è stato doppio: le imprese sono entrate in crisi di liquidità, e anche le banche hanno iniziato a mettere a serio rischio i propri coefficienti patrimoniali, perché con lo Stato che continuava dopo anni a fare orecchie da mercante, quei crediti stavano iniziando a diventare inesigibili. È stato davanti al rischio-banche che Monti si è finalmente mosso, comprendendo che il suo bluff andava ritirato per cercare una soluzione vera e di emergenza. Ancora una volta è il governo delle banche che interviene finalmente con un po' più di decisione. E ha stanziato 40 miliardi di euro (secondo il testo del decreto però quelli certi sono in tutto 26 in due anni), aumentando il debito pubblico. Chi pagherà una quota consistente di quei 40 miliardi? Le imprese stesse, visto che quei fondi saranno ricavati dall'emissione di nuovi Btp, e che la spesa per interessi verrà compensata quasi completamente dai tagli lineari a beni e servizi della p.a.: a rimetterci saranno dunque i fornitori, gli stessi che si vorrebbe oggi aiutare. Le lungaggini burocratiche sono ancora molte e lo scetticismo sulla disponibilità a breve di quella liquidità è giustamente alto. Non solo: 40 miliardi in due anni (quando come ha avvertito la Ue sarà possibile risolvere tutta la materia solo prima del 2015, perché poi scatta il fiscal compact e l'Italia non potrà fare operazioni simili) significa che più del 50% dei debiti della pubblica amministrazione non verranno onorati. Una impresa su due non vedrà nemmeno un quattrino e salterà gambe all'aria. Infine, le somme che saranno stanziate da comuni e province saranno vincolati (come si trattasse di una fidejussione) agli incassi rispettivamente dell'Imu e della Rc auto. Questo significa che per due anni almeno nessuno potrà toccare quelle imposte, e che i prossimi governi in ogni caso avranno le  mani legate. C'è da festeggiare? No, c'è da cambiare radicalmente questo decreto.

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