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Berlusconi ora rivede i fantasmi del 2006

Giampaolo Pansa

Sette anni fa la sinistra impose Napolitano e aveva già Camera, Senato e governo. Ora vuole fare lo stesso

Andrea Tempestini
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di Giampaolo Pansa Ritorniamo al passato. La mattina dell'8 maggio 2006, primo giorno di votazioni sul nuovo presidente della Repubblica, a Montecitorio c'ero anch'io. Dovevo scrivere un diario di quanto sarebbe accaduto e m'imbattei subito in chi ne sapeva molto: Luciano Violante, big progressista, oggi uno dei dieci saggi. Gli dissi: «Avete già conquistato le presidenze di Camera e Senato. Anche il presidente del Consiglio è vostro. Perché volete prendervi  tutto il piatto, compreso il Quirinale?».  Violante alzò le spalle: «Se le elezioni le avesse vinte il centrodestra, farebbe la stessa cosa». Provai a ribattergli: «Sostenete sempre di essere diversi dagli altri. E invece…». Lui mi fece capire che non aveva tempo da perdere e se ne andò. Del resto avevo già compreso da anni che i partiti erano tutti uguali. Nel 2006 come adesso, vigilia di un'altra elezione presidenziale.  Il centrosinistra, guidato da Romano Prodi, aveva vinto le politiche per una manciata di voti. Eppure si era pappato gran parte del piatto. Al Senato aveva piazzato Franco Marini e alla Camera Fausto Bertinotti. Adesso era arrivato il momento di prendersi il Quirinale. Un giornale di centrodestra, Il Foglio di Giuliano Ferrara, aveva lanciato la candidatura di Massimo D'Alema. Ma la proposta  si afflosciò subito, poiché una gran parte del centrosinistra la osteggiava. Allora venne scelto Giorgio Napolitano. Lui accettò. Era il 7 maggio, poche ore prima del grande match.  La seduta congiunta delle Camere si aprì la mattina successiva. Nel Transatlantico vidi per primo D'Alema. Era un nume irato. Ma non smentì il proprio sangue freddo. Sibilò: «Napolitano è entrato in conclave da cardinale e credo che ne uscirà da papa». Piero Fassino, il leader dei Ds, aveva un'aria macilenta, con la pelle che gli cascava addosso, come un vestito troppo largo. Rosy Bindi, dalemiana bianca, era una casalinga disperata. Aveva lottato per vedere Max al Quirinale e adesso avvertiva il peso della sconfitta. Sul fronte opposto, Berlusconi stava incavolato al massimo. La rabbia per le elezioni perdute di un soffio gli rodeva il fegato. Ed era innervosito per l'apparente ribellismo della ditta Fini & Casini, restii a obbedirgli.  Il Transatlantico di Montecitorio mi sembrò un palcoscenico gremito di attori troppo noti. Gli ultrà rossi si aggiravano come lupi in una foresta appena conquistata. Ringhiavano che il centrosinistra doveva razziare l'intero bottino istituzionale. Ed erano convinti che il  blocco d'acciaio guidato da Prodi sarebbe durato cinque anni e poi altri cinque ancora. Era molto tempo che non andavo alla Camera: un Colosseo dei partiti  spappolati, eppure sempre capaci di imporre la loro volontà. Infatti resero inutile il primo scrutinio. Il centrodestra votò per Gianni Letta. Il centrosinistra si rifugiò nelle schede bianche. Ma in quel biancore incombevano i due volti di Giorgio Napolitano.  Il primo era il Re Cattivo. Un residuato bellico del vecchio Pci. Un antenato riemerso da un mondo scomparso. Borioso. Gonfio di presunzione. Se fosse riuscito a varcare la soglia del Quirinale, la sua pignoleria avrebbe tormentato per sette anni governi e parlamenti. Ma esisteva anche il Re Buono. Un socialdemocratico coerente. Un uomo delle istituzioni. Un cultore delle regole fatte rispettare a tutti. Un pacificatore.. I suoi tifosi garantivano: «Non farà del Quirinale un inferno di manovre e di intrighi».  Il secondo scrutinio iniziò la mattina del 9 maggio. Con due sorprese che infastidirono Berlusconi. Aprì Libero e vi trovò l'ultima mazzata di Vittorio Feltri, il direttore: «No, Silvio, questo no. Non farti fregare, i tuoi elettori non lo meritano». Un titolone chiariva il messaggio: «Su Napolitano, Silvio rischia l'autogol». Feltri sospettava che Berlusconi ordinasse di votare per il candidato rosso. Ma si sbagliava. Tuttavia il Cavaliere si trovò ferito da un'altra sorpresa, del tutto opposta. Uno dei suoi, Sandro Bondi, aveva pubblicato sulla Stampa un santino che inneggiava a Napolitano.  L'inno si apriva con il ricordo di quando Bondi stava nel Pci. Allora era sindaco di Fivizzano, un paese rosso fuoco, in provincia di Massa Carrara. In quella veste aveva propiziato la presentazione di un libro di Napolitano. E fu allora che conobbe il Re Buono e si sentì subito in sintonia con lui. Tanto da diventare un comunista migliorista. Adesso il mite Sandro spiegava a Silvio perché il centrodestra poteva votare re Giorgio: «Rispetto a D'Alema, il continuatore dell'esperienza comunista e togliattiana, agli occhi dei nostri elettori Napolitano rappresenta un politico moderato. E può essere considerato il male minore». Beninteso, concludeva Bondi, «se non si riuscirà a consolidare attorno a Mario Monti un consenso vasto e trasversale».  Già, il professor Monti. Un altro candidato eccellente per il Quirinale. Tuttavia nessun partito voleva avere Monti tra i piedi. Immaginarlo al Quirinale era blasfemo. Persino più che sognare il terrorista islamico Bin Laden sul trono di Pietro in Vaticano. Allora i milledieci grandi elettori votarono la seconda volta inutilmente. Il pomeriggio del 9 maggio, il Conclave parlamentare si cimentò nel terzo scrutinio. Ma l'esito fu persino più avvilente. Da  presidente della Camera, Bertinotti recitò una litania grottesca. Bianca, bianca, bianca, Bossi, bianca, Ciampi, D'Alema, bianca bianca, Oriana Fallaci, bianca, bianca, Napolitano, Luciano Moggi, Linda Giuva in D'Alema, il cantante rock Vasco Rossi, Giovanni Consorte, il presidente dimissionato dell'Unipol. C'erano pure ventidue schede nulle con chissà quali sconcezze.  Ma a sgomentare era lo tsunami delle bianche: ben 724. Divisi nella lotta, i due blocchi si univano nell'impotenza a decidere. Tuttavia il centrosinistra ostentava una marmorea sicurezza: «Le ondate bianche sono state una necessità. Ma domani mattina tutto sarà finito». Mi mostravano, soddisfatti, l'organigramma completo, quattro poltrone su quattro: «Abbiamo fatto filotto. Il potere è nostro. E non lo molleremo più». La truppa di Berlusconi rovesciava questa diagnosi. Il governo Prodi sarebbe durato poco. Il suo tallone d'Achille era il Senato. Qui il vantaggio risultava di due o tre voti: «Se i nostri senatori non si dimostreranno i soliti assenteisti, Prodi e i suoi ministri andranno presto a casa. E anche un presidente rosso dovrà convocare i comizi elettorali. Allora Berlusconi vincerà a mani basse!».   La mattina del 10 maggio s'iniziò la quarta votazione, dove era sufficiente la maggioranza assoluta. Le sinistre erano sicure che il Re Buono avrebbe conquistato il colle più alto. Non erano previsti disertori. I duecento parlamentari legati a D'Alema avrebbero fatto il dover loro. Anche sotto le tende del centrodestra l'attesa era tranquilla. Tutti avrebbero votato scheda bianca. Tranne qualche ribelle dell'Udc che aveva rivelato di essere per Napolitano. Quanti erano i dissidenti? Pochi, a giudicare dall'olimpica paciosità del loro capo, Pier Ferdinando Casini. Sbagliando, uno dei suoi mi spiegò: «Pierferdi immagina che nel 2013 al Quirinale ci andrà lui e non Berlusconi. Se nel 2013 il Cavaliere risulterà ancora in vita, farà il pensionato di lusso nel villone di Arcore».  All'annuncio della vittoria del re Buono, Silvio mi sembrò livido. Come D'Alema, amava vincere. Però la primavera del 2006 gli portava sfortuna. Dopo aver perso le elezioni, vedeva sfumare il Quirinale. Morale della favola? La vita del secondo governo Prodi durò pochissimo. E si rivelò una via crucis continua. Poi rivinse Berlusconi. Quindi arrivò il terremoto che stiamo ancora vivendo. L'unico a restare indenne nel marasma fu Napolitano. Ma adesso re Giorgio è chiamato a una prova che fa tremare.

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