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Pd, retroscena sul disastro: D'Alema furioso con Bersani, "quello è matto"
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di Franco Bechis Era concitata quella telefonata a voce alta fatta da Massimo D'Alema di primo mattino nella via vicino casa, a pochi passi da piazza Mazzini, cuore del quartiere Prati a Roma. Chissà chi era l'interlocutore che ascoltava il veemente sfogo su Pierluigi Bersani: «Quello è matto, così ci porta alla rovina». Nelle stesse ore il gruppo dei fedelissimi (ormai una sparuta pattuglia parlamentare dopo l'utilizzo del Ddt contro la corrente nella formazione delle liste) provava a chiedere una riunione qualsiasi - una direzione, un caminetto, almeno un barbecue - prima che Enrico Letta salisse al Quirinale: «Dobbiamo dirgli pure qualcosa. Qui stiamo tornando indietro di 20 anni. Il partito sembra quello che si è rovinato con i girotondi e gli arancioni». Qualche riunione c'è pure stata. Letta jr e Dario Franceschini si sono trovati nella sede dell'Arel. Ieri sera si era diffusa anche la voce di una presenza di Bersani, e addirittura il retroscena di un incontro simile a quello fatale di Giulio Cesare con Bruto e Cassio. Fantasie, perché Bersani si è tolto di mezzo dal primo mattino facendo sapere di andare a Piacenza. Lì a dire il vero nessuno l'ha trovato. E l'inviato del Tg La7 che si era precipitato lì su indicazioni del portavoce del segretario Pd, Stefano Di Traglia, ha provato invano a scampanellare. Al citofono ha risposto solo la signora Bersani lanciandosi in un «il segretario non è in casa», che doveva avere sentito all'epoca di Palmiro Togliatti. Il segretario certo non era alla riunione Arel, ma da lì devono essergli fischiate parecchio le orecchie. C'è chi dice che sia arrivata da Letta una telefonata cortese, ma determinata: «Pier Luigi, non possiamo continuare sulla stesa linea». Dalle fila del segretario traspare invece una soluzione concordata: un cambio di rotta per uscire dall'angolo e ribaltare le difficoltà su chi li aveva messi alle corde. Chissà quale è la versione più vera. Una cosa sola è certa: ieri il Pd era una maionese impazzita. Il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, di primo mattino aveva iniziato sue personali consultazioni con i senatori Pd per sondare un eventuale via libera a un governo guidato da Fabrizio Saccomanni. A metà giornata filtravano indiscrezioni su contatti informali fra il Quirinale e il presidente dell'Anci, Graziano Delrio, per verificare l'eventuale disponibilità di Matteo Renzi. Si intensificavano anche le voci di un arrivo di Renzi a Roma addirittura per ricevere l'incarico. Nulla veniva confermato, ma tutto questo dava l'idea dell'impazzimento nelle fila del centrosinistra. Bersani una telefonata di sicuro l'ha fatta ed è quella con Nichi Vendola, leader di Sel: «Vai avanti tranquillo, io non mollo un centimetro. O governo del cambiamento con me o si va alle elezioni». E infatti Vendola si è immolato su questa linea nemmeno un'ora prima del voltafaccia di Letta jr. Che cosa è accaduto in mezzo per provocare la grande virata di 180 gradi e la disponibilità ufficiale del Pd a dare i propri voti a qualsiasi governo scelto da Napolitano? Secondo i rumors lo stesso presidente della Repubblica, che di fronte all'impasse ha messo sul piatto le proprie immediate dimissioni. Questa ipotesi è stata sicuramente ventilata nell'incontro con i rappresentanti di Lista civica per Monti, quando Napolitano si è lasciato scappare «a questo punto non sarò più io ad occuparmi di una soluzione alla crisi politica». Secondo le ricostruzioni è stata fatta in modo più deciso durante l'incontro con la delegazione Pd: «Io mi dimetto il 2 aprile». E ancora ieri a tarda sera molti erano convinti che quella non fosse solo una minaccia, ma una decisione ormai presa. E che semmai potrebbe essere addirittura anticipata e comunicata pubblicamente oggi. Certo, la svolta nel Pd è sembrata evidente dalle comunicazioni finali di Letta. Ma non è stata colta come tale dagli altri protagonisti. «Quale svolta?», commenta infatti il neosenatore Augusto Minzolini, «hanno detto no al governissimo e sì a un governo di scopo che noi non possiamo certo votare. Sembra solo un trucco per perdere tempo». Mezza svolta, mezza umiliazione per Bersani. Che ieri però l'ha presa come uno schiaffone. Lui si sentiva ancora premier incaricato. Napolitano invece ha spiegato alle delegazioni che «non c'era alcun bisogno di revoca dell'incarico, visto che aveva un perimetro limitato che è evidentemente finito giovedì». Il segretario Pd non l'ha presa bene, e schiuma rabbia: «Ah, sì? Adesso si divertiranno con il presidente della Repubblica. Faremo eleggere Paolo Flores D'Arcais o anche Margherita Hack, se piace di più ai grillini».
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La Postina con Zanellato diventa Dotta
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