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Il comunista contro il suo partito: Re Giorgio, presidente anomalo

Compagno Giorgio: visto da Benny

E' l'unico che sappia cosa fare. Ha mostrato coraggio nel prendere in mano la situazione commissariando di fatto Bersani. Ora spetta a lui la scelta. E non ha paura di aprire ferite profonde nella "sua" sinistra

Andrea Tempestini
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di Martino Cervo L'Italia torna sul tavolo del Quirinale. L'ultima e unica sede reale di pensiero politico operativo nella drammatica fase del nostro Paese riporta indietro, per piglio presidenzialista, all'autunno 2011, quando Giorgio Napolitano prese in mano la situazione il giorno stesso della fotografia parlamentare della dissoluzione della maggioranza del Cavaliere e mise in sella Mario Monti, con la chirurgica operazione che lo fece passare da Palazzo Madama a Palazzo Chigi in una manciata di ore. Napolitano si conferma interprete di pragmatismo totale del mandato e dei confini costituzionali, sfornando a distanza di un anno e mezzo un altro inedito assoluto nella storia di quella Repubblica italiana che ha attraversato da cima a fondo, dai Guf al Pci, dalla presidenza della Camera al Colle. La novità di ieri è un premier incaricato (Bersani) che resta formalmente nel suo ruolo ma è di fatto sotto tutela, commissariato da un capo di Stato che si è caricato sulle spalle l'incombenza di trovare l'accordo politico che il segretario del Pd non è riuscito a sintetizzare. Il no di Napolitano - La sberla rifilata ieri da Napolitano al «suo» leader conferma l'assoluta originalità del capo di Stato, che di fatto da tempo si è posto su un terreno tutt'altro che coincidente con gli interessi della formazione che l'ha pur sempre sistemato al Quirinale dopo il quasi pareggio del 2006. Se già nell'ora del disfacimento del sostegno in Aula al governo Berlusconi sotto la bufera finanziaria (novembre 2011) il Colle aveva tirato fuori dal cappello la soluzione Monti preferendola al salto di elezioni anticipate che pure con forti probabilità il Pd avrebbe vinto, è con la scelta di ieri che la frattura con Bersani si è resa esplicita. Il leader Pd voleva andare in Aula a cercare fortuna, tempo e voti. Il capo di Stato ha detto no, tenendo fede alla sua richiesta di «numeri certi» per qualunque ipotesi politica. Richiesta che già di per sé ha messo il presidente della Repubblica e il candidato premier della sinistra in rotta di collisione neppure troppo sottotraccia. Il monito - La cauta originalità del migliorista che aveva prima plaudito all'invasione dei cingolati sovietici di Budapest (1956) e poi (1974) giustificato l'espulsione di Solzenicyn dall'Urss ha via via preso i toni del decisionismo felpato ma definitivo, al crescere del cursus honorum  (dieci legislature in Italia, due in Europa) e nelle svolte della storia. L'ultimo guizzo dell'88enne (a giugno) Napolitano sarà fatale alla tenuta stessa del Pd, che già viene considerata a rischio se dovesse nascere una forma di intesa col Pdl benedetta dal Colle? Alcuni elementi della sua storia sono perfettamente in linea con una concezione laica di riconoscimento istituzionale dell'avversario. Non è un caso che all'inizio delle consultazioni proprio Napolitano abbia sottolineato la fondatezza della preoccupazione del centrodestra di «partecipare adeguatamente a questa complessa fase politico-istituzionale». Adesso fa quasi sorridere, ma nella primavera 1994 fu Giorgio Napolitano, allora Pds, a tenere il discorso ufficiale del suo partito in occasione del voto di fiducia al nuovo premier: «L'evoluzione del sistema politico italiano», disse allora, «sarà oggetto di grande attenzione in Europa. Comprensibilmente, perché vi è malessere nelle democrazie europee, disagio nel rapporto tra cittadini e istituzioni, contestazione di partiti tradizionali, e ci si chiede quali vie possa prendere nei nostri paesi la politica, in nome dell'antipolitica». Finì con Berlusconi che andò ad applaudirlo e stringergli la mano. Ma non è neppure un caso che, dai tempi in cui si fece scappare Licio Gelli da ministro degli Interni incappando negli strali di Micromega che ne chiese le dimissioni (1998), con la parte manettara della sinistra Napolitano ha sempre incrociato le lame. Lo ha fatto più volte richiamando le toghe entro i loro confini. E lo ha fatto agendo in maniera muscolare sulle accuse a lui rivolte a proposito delle telefonate intercettate nel corso delle indagini sulla presunta trattativa Stato-mafia. Proprio lui, che nel 1993 da presidente della Camera aveva reso palese il voto per le autorizzazioni a procedere sui deputati. Camaleonte ormai calato da decenni nei gangli del potere italiano, Re Giorgio con la scelta di ieri prolunga ed estende il suo personalissimo presidenzialismo, mettendo nei guai un Pd stretto tra difesa formale di un segretario «ibernato» nel suo incarico e trattativa reale su altri nomi. Forse il capo di Stato presenta un solo, vero limite nella sua indispensabile eccezionalità in un Paese rimasto senza baricentri: nessuno dei suoi tentativi è pensabile, come futuro portato politico, senza lui stesso nel ruolo di interprete. O è una forza?  

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