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Dopo le CamereBersani preparaun Quirinaletinto di rosso

Matteo Legnani
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di Giordano Tedoldi Bersani è fondamentalmente un clone di D'Alema, con una connaturata bonomia invece delle asprezze caratteriali. La cifra politica è però la stessa: spregiudicatezza tattica accompagnata da una visione politica di cortissimo respiro. Bersani crede di aver ottenuto un grande successo attirando il consenso grillino su Boldrini alla presidenza della Camera e Grasso a quella del Senato e, non avendo fantasia né coraggio per cambiare schema, tenterà la stessa operazione per il Quirinale. Bersani non si preoccupa degli scenari futuri, pensa a conquistare quante più posizioni possibili con le forze che ha e, poiché la maggioranza di governo resta un obiettivo fuori portata, intanto si dedica a occupare le principali cariche istituzionali. Come un esercito che badi a attestarsi su un terreno favorevole prima della battaglia campale. Ma come gli è andata male contro il giaguaro, Bersani potrebbe essere respinto ancora con perdite. Intendiamoci, quando Grillo parlava del parlamento come una scatola di tonno doveva riferirsi al suo Movimento 5 Stelle, che in effetti si taglia (o si spacca) con un grissino, o con il grillino, sempre pronto a votare il candidato di Bersani, immancabilmente scelto nel vasto cimitero dei sepolcri imbiancati.  Quindi nulla di più facile che, di nuovo, Bersani alletti il labile movimento di Grillo con la candidatura quirinalizia di un professor Stefano Rodotà, o del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, mentre pare tramontata, per indisponibilità dell'interessato, quella di Dario Fo. Nomi che la base grillina, con buona pace dei controlli ipnotici e mitologici di Casaleggio e di quelli più sanguigni dello stesso Beppe Grillo, potrebbe senz'altro votare. Inutile dire che la tattica di Bersani, come rivela lo sprezzo con cui ha rimandato al mittente la proposta di Alfano su un nome concordato col Pdl per il Colle, mira all'eliminazione dei moderati. Ma si può votare un presidente della Repubblica anch'esso espressione del mero opportunistico legame tra Pd e grillini dissidenti? Le presidenze delle Camere sono cariche prestigiose ma relativamente ininfluenti, il Quirinale è il crocevia della politica italiana perlomeno dal settennato di Sandro Pertini. Come se la caverebbe sul Colle Stefano Rodotà, sostenuto dagli intellettuali del Pd? Tutto può accadere, ma qualcuno ricorda alcunché di sostanziale venire da questo professore di diritto civile dall'eloquio insopportabilmente flemmatico, la cui carriera è stata una collezione di incarichi di dubbia efficacia operativa, ma certo ben remunerati (a proposito di costi della politica, cari grillini…) quali l'Authority garante per la protezione dei dati personali, cioè quella privacy ampiamente massacrata nel Paese più intercettato e selvaggiamente indiscreto del mondo? E il presidente emerito della Consulta, Zagrebelsky? Un boccone digeribile per i grillini, anche se ha dichiarato che “la democrazia dei 5 Stelle è inganno”. Ma questo è inevitabile, con lui: egli solo sa cos'è democrazia genuina, e lo spiega alle plebi dalle pagine di Repubblica o in quelle adunate di potenti che amano gli umili, tra i suoi confratelli milionari di Giustizia e Libertà. Ma il Quirinale può andare a un amareggiato professore col vizietto del giudizio giacobino? Alle elezioni, il domatore di giaguari si è beccato qualche unghiata, ora, piazzando un burocrate dei diritti civili di sua obbedienza al Quirinale, rischia di sfasciare la concordia richiamata da Grasso nel suo discorso d'insediamento al Senato, e di lanciare un settennato che, altro che impresentabile, sarebbe immondo.

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