Un montiano alla Camera Il Senato al Pd e poi il governissimo
di Paolo Emilio Russo Mario Monti non ha alcuna intenzione di essere tagliato fuori. Sa che il suo manipolo di parlamentari può risultare decisivo per eleggere il Capo dello Stato e, per questa ragione, si è fatto avanti. Il conto che ha presentato al Pd è piuttosto salato: la presidenza di una delle due Camere. Ieri pomeriggio, non appena è stato chiaro a tutti che il Parlamento era di fronte a una impasse, sono scattate le avances ai Democratici, l'offerta di una collaborazione. Una mossa - annunciata alcuni giorni fa - che prelude a un accordo più generale tra le forze politiche, un “piano b” dopo l'ormai sempre più evidente auto-esclusione del Movimento 5 stelle da qualunque tipo di responsabilità. Il Professore, che resta premier per il «disbrigo degli affari correnti», ha osservato la «palude» di Camera e Senato, dove le votazioni per eleggere i presidenti sono finite in bianco come le schede votate da Pd, Pdl e centristi, e poi si è messo in moto. È così convinto che, ieri sera, ha chiesto e ottenuto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il suo piano è quello di fare breccia nella contrapposizione tra i due principali schieramenti già da ora, infilandosi in mezzo. La prima mossa: convincere i democratici a rinunciare ad almeno una Camera. Il disgelo, guarda caso, doveva cominciare con l'assegnazione della guida di una delle due Camere proprio ad un montiano. Il Professore non ha fatto mistero coi suoi di aspirare alla presidenza del Senato, il ramo dove nessuno dei due principali contendenti può contare su una maggioranza. Il suo ruolo di senatore a vita, la sua esperienza internazionale, in effetti glielo avrebbero consentito. Ma la sua ambizione è finita frustrata da due circostanze concrete: l'incompatibilità tra il ruolo di premier e quello di seconda carica dello Stato, e il veto del centrodestra e della Lega Nord in particolare. Al capo dello Stato il premier uscente ha provato a spiegare che «la missione del governo, con il vertice a Bruxelles», è «compiuta» e che, di conseguenza, il timone dell'esecutivo avrebbe potuto passare - chissà perchè proprio a lui - a Piero Giarda. Giorgio Napolitano, raccontano i presenti, dopo avere ascoltato la proposta, avrebbe intimato all'ex rettore della Bocconi di desistere. Per questa ragione i montiani hanno ridimensionato la loro ambizione e si «accontenterebbero» della guida della Camera dei deputati. Niente più Dario Franceschini, candidato di bandiera, ma uno tra gli eletti di Scelta civica, Lorenzo Dellai, Andrea Romano o Renato Balduzzi. In cambio della terza carica dello Stato i montiani sarebbero disposti a votare presidente del Senato Anna Finocchiaro che, da quello scranno, sarebbe predestinata ad avere l'incarico esplorativo come premier nel caso abortisca il tentativo di Pier Luigi Bersani di strappare l'appoggio ai grillini. L'ex capogruppo Pd a Palazzo Madama, del resto, ha rapporti «non ostili» con il centrodestra (e con la Lega in particolare) quindi, certamente, più chance del leader democratico di coinvolgere il Pdl in un ipotetico governo. Di più, anche se dovesse fallire, potrebbe a quel punto ambire addirittura al Colle. Questo tentativo di «conciliazione» ha messo con le spalle al muro il leader del Pd. Per questa ragione, ieri pomeriggio, si sono lungamente confrontati a Montecitorio Bersani, Enrico Letta e Dario Franceschini. «Ci ha fregato una volta, chi ci garantisce che non lo rifarà?», avrebbe detto Bersani. Ad un certo punto si è infilato nell'ufficio dove si trovavano i tre anche Pier Ferdinando Casini, leader Udc. Niente da fare anche con lui, tutto daccapo. Stop anche alla tattica, definita «suicida», suggerita da Nichi Vendola. Il leader di Sel aveva invitato il centrosinistra a sostenere alla presidenza della Camera il candidato grillino (Roberto Fico) senza alcuna garanzia in cambio. L'alternativa all'accordone con montiani e Pdl per il Pd rischia di essere disastrosa. I piddini potrebbero sì portarsi a casa due presidenze, ma, contemporaneamente, decretare l'immediata fine della legislatura o, addirittura, finire schiantati contro il “niet” del capo dello Stato alla mission impossibile del governo a 5 stelle. Il Colle non è infatti insensibile alle continue offerte di disponibilità di Silvio Berlusconi. Il Pdl, come ha spiegato ieri mattina Angelino Alfano alla prima riunione dei deputati, «non vuole nessun posto, si sottrae a qualunque trattativa», ma non resterà sull'Aventino. Anzi. «Il governo si deve fare e si farà», ha detto Silvio Berlusconi ieri sera, appena uscito dal San Raffaele. «Chi si sottraesse a questa responsabilità non avrebbe nemmeno più il diritto di stare in politica», ha tuonato il Cavaliere. L'ex premier continua, allo stesso tempo, col fuoco preventivo: «Il prossimo capo dello Stato non potrà essere di sinistra, ma dovrà essere una figura di garanzia». Il timore del leader del centrodestra è che nel Pd a questo punto si giochi allo sfascio, che Bersani e i suoi abbiano come solo obbiettivo quello di portarsi a casa il nuovo Presidente della Repubblica, che sarà il “mazziere” da maggio in poi, e, a quel punto, tentare la roulette del voto anticipato, meglio se in estate, in modo da impedire a Matteo Renzi di scendere in campo. Ad inchiodare il Pd alle sue responsabilità potrebbe essere il Quirinale. Più che la consistenza numerica, infatti, rischia di essere il numero di gruppi che, nel corso delle consultazioni della prossima settimana, si diranno «disponibili» a sostenere un esecutivo di emergenza. La situazione si è così intricata che i democratici potrebbero essere i soli contrari alle larghe intese o, comunque, ad un governo di scopo. Disponibili sono, oltre ai montiani, anche i leghisti e, appunto, i pidiellini. Il Cavaliere continua ad essere preoccupato dall'offensiva giudiziaria (ieri, in un solo giorno, sono stati arrestati tre suoi ex deputati), ma, proprio per questa ragione, non ha intenzione di farsi da parte. Gli sherpa di Monti avrebbero già strappato ai pidiellini il via libera ad un'intesa per un governo che intervenga sui costi della politica, immetta liquidità nel sistema, riformi la legge elettorale. Un governo politico e trasversale, che affronti alcune emergenze e consenta di tornare al voto quando l'impeto grillino si sarà smorzato, quella che i centristi chiamano «la bolla Grillo» sarà esplosa sotto il peso delle sue contraddizioni.