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Giorgio Napolitano, così ha frenato Matteo Renzi e dettato la linea a Pier Carlo Padoan

Andrea Tempestini
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L'altro ieri Renzi, ieri Padoan. Il presidente della Repubblica ha avuto una due giorni intensa, e non è difficile immaginare l'argomento sul tavolo del capo dello Stato. Piuttosto, è curioso che, nella conferenza stampa a Palazzo Chigi, non sia entrato neppure di striscio il tema del rapporto col Quirinale, salvo le consuete rassicurazioni sugli impegni da rispettare e sull'Italia che ce la fa perché è l'Italia. Eppure il nodo dell'asse Colle-governo è, non da ieri, quello attorno cui leggere i destini di questo esecutivo e, vista la situazione, del Paese. Non è un mistero che sulla casella di ministro dell'Economia si siano concentrati, da Giulio Tremonti in poi, i desiderata più del Quirinale che di Palazzo Chigi. E se con Monti la coincidenza era assoluta, la progressiva «politicizzazione» dei governi non ha allentato la presa di Napolitano su via XX Settembre, centro di controllo cruciale per le scelte di politica economica di fondo (partecipazione al Fondo Salva Stati, occhio sui conti dello Stato, rispetto dei parametri europei). Nessun complotto: per Costituzione al capo di Stato spetta il ruolo di «garante» di fatto dei trattati internazionali. Però i confini di questa «garanzia» sono nell'ampia discrezionalità di un mandato che Napolitano, nel corso della sua doppietta inedita, ha dato mostra di interpretare con sicura spregiudicatezza. Al centro del colloquio tra il presidente e Padoan, avvenuto poco prima del consiglio dei ministri e meno di 24 ore dopo l'incontro col premier (e non viceversa...) c'è stato «uno scambio di vedute sulle prossime occasioni di chiarimento e di intesa a livello europeo (ad esempio in occasione della prossima seduta dell'Ecofin) per il rilancio della crescita dovunque in Europa», come spiega una nota quirinalizia: «Nella ricognizione si sono considerate attentamente le importanti indicazioni contenute nel discorso pronunciato dal presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, a Jackson Hole». Difficile che quest'ultimo sia un riferimento casuale, a maggior ragione se si considera l'incontro - rimasto segreto fino allo scoop del Corriere dell'Umbria - tra il premier e il governatore della Bce. Se c'è una cosa che in Italia non può essere sottovalutata alla luce degli ultimi tre anni, questa è il peso del capo dello Stato, protagonista di un «presidenzialismo quirinalizio» che il movimentismo renziano ha offuscato nell'immagine ma non certo ridotto nei fatti. Dal 2 novembre 2011- la data in cui il Colle respinse il decreto sviluppo con cui Silvio Berlusconi voleva presentarsi al G20 di Cannes per resistere alla guerra dello spread e alla frantumazione della sua maggioranza - è apparsa sotto la luce del sole la centralità totale del Quirinale. In parte una necessità: la rielezione del 2013 è stata anche conseguenza del fatto che Napolitano era l'unico centro istituzionale che teneva sotto controllo le leve di un Paese in un dopo-elezioni di puro stallo. Ma quella eccezionalità non si è esaurita, e la fatica con cui gli uomini di Renzi gestiscono le relazioni col Quirinale ne è l'ennesima riprova. L'incontro - rituale, ma strano nella tempistica - con Padoan fa il paio con gli intoppi al Colle dei decreti PA e competitività, e con le perplessità sulle coperture dei provvedimenti sulla scuola, e conferma l'impressione della presenza di una linea di comando in grado di sostenere una sua autonomia rispetto alle decisioni o agli orientamenti dell'esecutivo. Fino a qui proprio Napolitano ha tentato in tutti i modi da un lato di tenere l'Italia imbullonata all'Europa a ogni costo (vedi i contatti con le cancellerie per gestire la fine di Berlusconi), dall'altro di evitare costi sociali troppo pesanti su alcune grandi riforme e sui tagli alla spesa (valga per tutti il discorso all'europarlamento del 4 febbraio scorso, in cui attaccò l'austerity spiegando che «non regge più»). Se, come molti elementi lasciano pensare, la situazione dell'Italia dovesse peggiorare, l'alternativa potrebbe diventare inevitabile. E sul Colle si scaricherebbero gran parte delle tensioni, proprio per il ruolo accumulato in questi anni. di Martino Cervo

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