Cerca
Cerca
+

Pansa: Monti, Bersani e il Cav litigano, ma la crisi ha già vinto

I tre leader se le dicono di santa ragione, ma chiunque diventerà premier si troverà di fronte ad un programma scritto. Dalla recessione

Giulio Bucchi
  • a
  • a
  • a

di Giampaolo Pansa Tutte le campagne elettorali hanno la forza di una chiamata alle armi. Ne ho viste e poi raccontate molte, a cominciare dalla prima. Quella del 18 aprile 1948 che decise il destino dell'Italia appena uscita dal disastro di una guerra mondiale e di una guerra civile. Avevo tredici anni e mi è rimasto nella memoria il ricordo di un conflitto politico di un'asprezza che gli italiani non conoscevano da tempo. Reso ancora più cattivo dal contesto europeo, dove a combattersi erano due ideologie  incompatibili: un comunismo legato all'Unione sovietica e un liberalismo che stava con la democrazia americana.  Quando si avvicina il momento di andare alle urne, molti si inchinano all'obbligo di schierarsi dietro la bandiera di un partito. E di andare all'assalto per far vincere la squadra che si è scelta. La democrazia parlamentare è fatta così. Winston Churchill sosteneva che era il sistema peggiore per governare un paese, ma nessuno ne aveva ancora scoperto uno migliore. Per questo bisogna gridare “Viva le elezioni!”. Ma al tempo stesso è indispensabile ricordare i guai che si accompagnano alle battaglie elettorali.  Uno di questi guai riguarda il comportamento dei media, ossia della carta stampata e dell'informazione radiotelevisiva. È  quasi inevitabile che anche loro si schierino e combattano per garantire il successo della coalizione A, B o C. Sta accadendo pure nelle settimane che ci separano dal voto del 24-25 febbraio. Come dobbiamo giudicarlo questo atteggiamento che si ripresenta da decenni, ma che oggi sta diventando sempre più radicale, accanito, persino plumbeo? La mia opinione è che sia un grave errore, capace di causare un danno fatale soprattutto agli stessi media che lo commettono.  Anche le pietre sanno che la depressione riduce i consumi e mette in difficoltà molte imprese. La crisi ha colpito anche i giornali che si acquistano in edicola. Le vendite calano o restano stagnanti. La pubblicità si riduce, con riflessi pesanti sui bilanci delle aziende editoriali. I fattori che generano questo processo pericoloso sono tanti e diversi. Ma ne esiste uno che abbiamo sotto gli occhi ogni mattina.   Quando inizia una campagna elettorale, l'evento decisivo di una democrazia, i giornali dovrebbero mostrare il massimo di imparzialità. Non sto pensando ai media di questo o quel partito, organi nati per sostenere la loro fazione. Penso ai giornali d'informazione, proprietà di editori privati che li gestiscono e li finanziano.  A queste testate spetta l'impegno di raccontare e di spiegare quanto avviene nel teatro elettorale. Evitando di salire sul palcoscenico per diventare uno degli attori o, nel caso peggiore, una delle tante comparse. Purtroppo accade proprio questo. Invece di sedere in platea, molti sono attratti dalle luci della ribalta. I ruoli si confondono e lo spettacolo diventa mediocre. Mentre scrivo queste righe mi rendo conto di ritornare su una vecchia questione che ho affrontato troppe volte in passato, con decine di articoli e almeno tre libri. Devo riconoscere di averlo fatto senza successo. La convinzione, non soltanto mia, che parteggiare serva soltanto a tradire i propri lettori, è rimasto un pio desiderio, una predica inascoltata, un borbottio che può apparire vecchio. Poiché il mondo nel quale viviamo ci trascina tutti i giorni dentro una trincea.   Tuttavia è proprio lo scontro elettorale di questo inizio del 2013 a confermarmi  l'inutilità di fiancheggiare uno dei guerrieri che si scannano. Per una ragione che dovrebbe apparire evidente: chiunque vinca le elezioni sarà costretto a governare seguendo un programma già deciso altrove. E che può risultare molto diverso da quello presentato agli elettori per catturare il loro voto.  È una verità che conoscono bene i leader delle principali coalizioni contrapposte, si chiamino Silvio Berlusconi, Pier Luigi Bersani o Mario Monti. Sono big che di certo non si assomigliano. Li vedo quasi ogni sera nei talk show televisivi. Di loro non do il medesimo giudizio. Ne ho già scritto molto su  Libero  e non voglio ripetermi. Questa volta andrò a votare e sceglierò uno dei tre, o qualcuno degli altri politici che guidano partiti vecchi e nuovi. Pur sapendo che tutti dovranno camminare lungo un sentiero già tracciato. A meno che non vogliano scassare del tutto il sistema istituzionale e politico, come Beppe Grillo urla di voler fare.  Quando dico che il programma del futuro governo è stato deciso altrove, non intendo che a scriverlo siano stati gli uffici della Commissione europea. Questa è una favola utile soltanto a ingannare gli elettori più semplici. Identica alla leggenda che descrive l'Eurozona come un territorio schiavizzato dalla dittatura tedesca di Angela Merkel. E uguale alla colossale bugia di incolpare il governo tecnico di Monti della crisi economica e sociale che imprigiona l'Italia. Mentre la crisi esisteva già prima della correzione dei conti pubblici e dell'austerità imposta dall'esecutivo tecnico, Imu compresa.  Ce l'ha spiegato con schiettezza il commissario europeo all'Economia, il finlandese Olli Rehn, in un'intervista raccolta da Marco Zatterin, il corrispondente della  Stampa  da Bruxelles. Il quotidiano di Mario Calabresi l'ha pubblicata venerdì  con un titolo che dice: “Chiunque vinca le elezioni in Italia ha la strada segnata”. Quella di continuare e ampliare le riforme iniziate dal governo Monti.   L'altrove che decide quanto dovrà fare il futuro premier insediato a Palazzo Chigi dal voto di febbraio, è proprio la depressione in cui si trova gran parte dell'Europa. Grazie alle misure decise dall'esecutivo dei tecnici, l'Italia è stata messa al riparo dall'emergenza finanziaria fuori controllo. Per dirla alla buona, abbiamo evitato il rischio di non poter pagare le pensioni a milioni di italiani. Finire come la Grecia non è più il nostro destino. Però la guerra non è stata ancora vinta.  Guerra è una parola che mi atterrisce. E mi fa tornare alla memoria ciò che  sentivo dire dai miei genitori quando ero bambino. Se chiedevo qualcosa di troppo, replicavano: «Non si può perché siamo in guerra». Temo che molti di noi non abbiano compreso un'amara verità. Ci troviamo alle prese con la Terza guerra mondiale, un conflitto che rischia di travolgere per prima l'Europa e dunque anche l'Italia.  Si ripete di continuo che noi anziani abbiamo rubato il futuro ai giovani. In realtà sta accadendo assai di peggio. Non esiste nessun futuro tranquillo e facile tanto per le vecchie generazioni che per le nuove. L'unica certezza è che non ci salverà né un governo guidato da Bersani, né un ennesimo esecutivo di Berlusconi. Neppure un Monti bis ci metterebbe al sicuro se non fosse sostenuto da un accordo generale, convinto e solidale dei partiti. Per lo meno di quelli consapevoli che è indispensabile allearsi per evitare il disastro.   Anche per questo ritengo abbastanza inutile il successo elettorale di una singola coalizione. Chiunque vinca si troverà subito alle prese con un compito immane che neppure cento Batman sarebbero in grado di affrontare. Illudersi del contrario è il modo più sbrigativo per mettere in pratica l'arte di suicidarsi.  Altrettanto vano è parteggiare per Tizio o per Caio. Non è ricorrendo a un giornalismo astioso che si difende il buon credito dei media, grande o piccolo che sia. Tanto meno ci aiuta a ritrovare la speranza che da ragazzino vedevo sul viso degli adulti anche nei momenti più duri della guerra. 

Dai blog