Ambrosoli, Borsellino, La Torre, Montalcini: sotto il cognome, niente
Figli e parenti di, ma esperienza politica poca. E così il figlio dell'Eroe borghese si lascia sfuggire gaffe tipo "Maroni marxista"...
di Francesco Specchia «La morte e il tempo hanno lo stesso cognome...», sospirava lo scrittore messicano Domenico Cieri Estrada (a sua volta ingabbiato nel cognome del padre artista. Entrambi personaggi non epici...). I compilatori delle liste elettorali, gli arconti dell'urna del Pd, probabilmente non conoscono Estrada. Eppure vi è un'eco della sua arte nella probabile scelta di Piera Levi-Montalcini come candidata nella lista Moderati per il Piemonte, d'ispirazione fassiniana, dopo il rifiuto che lo stesso ingegnere elettronico Montalcini aveva fieramente opposto all'offerta precedente di Mario Monti: «in questo momento in Italia c'è bisogno di coerenza che era un tratto distintivo di mia zia». La zia sarebbe Rita. Piera sosteneva d'esser coerente, come lo era la parente Nobel e gigante della medicina sottratta da poco all'affetto dei cari. Per una Montalcini a Torino che traccheggia sul suo futuro parlamentare, però, ecco che a Milano un Umberto Ambrosoli detto Betò, di professione figlio dell' «eroe borghese» Giorgio e, in seconda battuta avvocato specialista in banche, si staglia alla conquista del Pirellone con il suo standing morbido, da persona perbene. Betò si candida da neofita assoluto per il Pd. Solo che, come il papà, è un tantino monarchico e, ogni tanto, nel bailamme dei comizi, può capitargli di dissociarsi da sè stesso. Ieri, per dire, Betò, all'improvviso, ha dato del «marxista leninista» a Maroni. Poi gli uomini di Bersani gli hanno sussurrato che i marxisti comunisti votano per lui; e lo sguardo di Betò è tornato del candore delle nuvole; e lui è rientrato nel ruolo del candidato ideale della cerchia salottiera dei Navigli, come direbbe il collega Senaldi. Le vicende dei due anomali democrats fotografa il ritorno d'una moda antica: la caccia al parente della vittima. Basta il cognome di papà, zii, nonni sacrificati alla nazione per illuminare le carriere. Sicchè il cognome, elemento che secondo gli Egizi connotava il soffio dell'anima, per i partiti oggi si muta in curriculum, in pedigree essenziale, in elemento meritocratico. Così ecco avanzare Franco La Torre, figlio di Pio, segretario Pci ucciso dalla mafia; il quale, dopo aver stracciato il tesserino del Pd, accetta l'offerta di Rivoluzione Civile. La Torre al giornale Controlacrisi che gli chiedeva che cosa lo legasse ad Ingroia candidamente risponde: «Nulla nel dettaglio. Non sono appassionato di cronache giudiziarie nonostante mio padre sia stato ucciso dalla mafia e mi ci siano voluti anni per elaborare il lutto...». E lo scranno parlamentare è la via più breve alla catarsi. Solo per restare in Sicilia la via del dolore portò a Palazzo Claudio Fava, figlio del giornalista Giuseppe ammazzato dalla mafia; e Rita Borsellino prima farmacista e, dopo la morte del fratello Paolo candidata alla presidenza dal Pd contro Cuffaro e alle Primarie per il Comune di Palermo contro Ferrandelli (nonostante il fratello simpatizzasse per l'MSI); e Sonia Alfano che interrompe gli studi dopo l'assassinio di papà Beppe per essere assunta in Regione e per sfarfallare di candidatura in candidatura, di manifestazione antimafia in manifestazione antimafia tra Grillo, Di Pietro, Ingroia. Mentre proprio ad Ingroia l'altro fratello, Salvatore Borsellino di professione “attivista italiano” -cita Wikipedia- oppone piccato diniego, causa la compilazione «stile vecchia politica» delle liste. Tutte brave persone, per carità. Patrioti di second'istanza di cui si sa tutto di vita privata e carriera politica, ma di cui francamente sfuggono le opere. Figuriamoci i meriti. Ognuno di essi impernia sul cognome/simbolo antimafia corpose attività pubblicistico-cinematografiche che richiamano «i professionisti dell'antimafia» di Sciascia. Almeno l'ex impiegata Rosa vedova dell'agente Sismi Nicola Calipari, Pd, si limitava a battagliare con la Lega sul Burqua. Almeno Chiara Moroni, Pdl, oramai sciolta nel brodo di Fli, non s'erge ogni due per tre per una giustizia giusta. Almeno Sabina Rossa decide che «dieci anni, due legislature, siano il tempo giusto per fare il Parlamentare», e torna a fare l'insegnante di educazione fisica (anche se il dubbio che l'abbiano trombata un po' rimane). Il cognome è importante, anche se sotto il cognome sbuffa il nulla...