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I poteri forti già pentiti:ora si schierano contro Monti

Bagnasco

Bagnasco dopo l'iniziale appoggio chiede meno tasse. Gli italici giornaloni e Confindustria sono freddi: si tratta di conservazione o di scetticismo sulla sua forza?

Andrea Tempestini
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  di Martino Cervo Mai come ora che la «Scelta civica con Monti per l'Italia» è in campo con simboli e, tra poco, nomi, quella scelta sembra convincere pochi. A cominciare dai giornali, che per mesi sono stati una quasi monocorde cassa di risonanza del montismo. Le pagine di Corriere, Sole e Stampa che celebravano il loden e l'«amato golden retriever che purtroppo non c'è più», la «first lady finalmente esportabile» e tante altre amenità, oggi ospitano editoriali compunti (Alesina e Giavazzi) contro il programma di Monti, richiami in prima pagina alla correttezza in campagna elettorale (ieri sul quotidiano di Confindustria), analisi impeccabili e  non proprio cordiali sull'aggressività anche verbale delle performance del Professore. Un'aria, insomma, cambiata. E se non è certo pensabile che certe firme siano «pilotabili», è pur vero che la loro collocazione è indice del fatto che quei pezzi di establishment che nei grandi giornali trovano espressione stanno in qualche modo posizionandosi. E non col premier uscente, come ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio. Fino a poco tempo fa era quasi naturale associare quelli che in Italia si chiamano «poteri forti» al Professore (il quale prima negò la loro esistenza, poi denunciò di averli ostili). E ora? Dopo un molto sbandierato articolo dell'Osservatore Romano letto come endorsement al Professore, molte dichiarazioni della Chiesa italiana sono state interpretate come una marcia indietro. Ieri il cardinal Bagnasco, presidente della Cei, ha fatto un appello per una campagna «costruttiva e rispettosa» che fatalmente è finito associato a chi rimproverava una scarsa ortodossia mediatico-linguistica al presidente del Consiglio. Così come l'anelito a una più lieve pressione fiscale espresso dal capo dei vescovi non suona esattamente come un abbraccio a Monti. E ieri tutti hanno esaltato le parole di Mario Toso, segretario del Pontificio consiglio giustizia e pace: «I partiti  devono comprendere nei loro programmi e nelle loro agende, alcuni princìpi di fondo quali il diritto al lavoro, la tutela dello Stato sociale e democratico contrastando la sua erosione, i tentativi di abbatterlo e la crescita delle diseguaglianze». Principi tutto sommato non travolgenti per originalità, ma le interpretazioni anti-montiane sono fioccate. Tuttavia, se a un cardinale o a un sacerdote non si possono appiccicare etichette di partito, il discorso è diverso per chi ha in mano le leve economiche del Paese. La scelta di Montezemolo di non essere in campo cosa significa in questo senso? La fotografia di Melfi con Monti e Marchionne rispecchia totalmente l'atteggiamento della grande industria nei confronti del premier? E Confindustria, il cui leader Squinzi ha sempre espresso  stima per Monti ma forti critiche per alcuni provvedimenti (uno su tutti, la riforma del lavoro definita «boiata»)? Se l'ad di Intesa Tomaso Cucchiani, autorevolissimo esponente del mondo finanziario, ha in più occasioni ribadito di augurarsi la permanenza di Monti a palazzo Chigi, questo auspicio è oggi ancora condiviso in toto da quel mondo? Come va letta la candidatura di Massimo Mucchetti nelle file del Pd? Sono domande che troveranno risposta in queste settimane di campagna elettorale, e che devono mettere in conto anche i calcoli sulla forza elettorale di Bersani, percepito come vincente quasi certo. Ma il fatto stesso che le risposte non siano scontate acuiscono l'interesse per l'operazione montiana. Gli intenti indubbiamente ragionevoli di spuntare i limiti di un bipolarismo enfatico e spesso distorsivo, di unire chi intenda realizzare riforme rinviate da decenni, di rinunciare a toni e argomenti da sbraco, pare quasi scontrarsi in questi giorni con alcuni protagonisti della coalizione di Monti ma più ancora col grande rischio del montismo: l'essere percepito come in provetta. Un esperimento a freddo, fatto di mezze discese in campo e di candidature non candidature, di annunci di novità e di Gianfranco Fini. Con tutti i suoi limiti, il bipolarismo plasmato pro o contro il Cavaliere ha avuto la caratteristiche di essere stato avallato da decine di milioni di voti. Ma lo smantellamento ad opera del Professore? Si deve ancora pesare, e solo il voto mostrerà questo peso, certo. Ma il problema è forse più sottile: un'«agenda» il cui contenuto sia ispirato da criteri (e poteri) economici e politici sovranazionali, con possibili asperità tali da suscitare l'ostilità di molti dei poteri nazionali, quale percorribilità politica conserva? Anche qualora questi criteri fossero buoni (il che è ovviamente opinabile), che conseguenze avrebbe trovarsi contro le strutture e le agenzie che innervano la società (in questo sindacati dipinti come estremi e Confindustria sono molto meno divisi dell'apparente)? In fondo, gran parte del futuro del Paese si giocherà intorno a questo nodo.  

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