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Il Cantico di Francesco segna la nostra identità

Antonio Socci
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«Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature». Chi non conosce questo luminoso e appassionato canto di Francesco d’Assisi? E poila lode a Dio per «messor lo frate Sole» che è «bellu e radiante cum grande splendore» e «de Te, Altissimo, porta significatione». E poi «per sora Luna e le stelle» – seicento anni prima di Leopardi – e poi «per frate Vento/ et per aere et nubilo et sereno» e «per sor’Aqua/ la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta» e poi «per frate Focu,/ per lo quale ennallumini la nocte/ et ello è bello et iocundo et robustoso et forte». Poi «per sora nostra matre Terra,/ la quale ne sustenta et governa/ et produce diversi fructi con coloriti flori et herba».

Ha la potenza di un grido d’amore a Dio (e alla sua opera) senza uguali perché è uscito dal cuore e dalle labbra di uno degli uomini più affascinanti che siano mai nati, che realmente viveva questo amore. Oggi ad Assisi iniziano le celebrazioni per gli 800 anni del Cantico delle creature di san Francesco. Non si tratta solo di un evento religioso, perché quel testo ha pure un grande significato culturale e storico.

Riguarda la nostra stessa identità nazionale che - come per tutti i popoli- si esprime principalmente nella letteratura. Infatti il più importante filologo italiano del Novecento, Gianfranco Contini, nella sua Letteratura italiana delle origini (Sansoni) presenta la poesia-laude di san Francesco come l’inizio della letteratura italiana.

Egli ricorda che ci sono pervenuti anche altri brani in volgare coevi o forse antecedenti, «ma le Laudes, anche senza contare la nobiltà del contenuto spirituale» scrive Contini «assicurano una miglior continuità fra cultura latina cristiana e cultura volgare, e all’interno della cultura italiana».

È davvero significativo che uno dei santi più popolari e più grandi della storia della Chiesa, sicuramente il più amato e venerato in Italia - di cui oltretutto san Francesco è patrono - sia anche un poeta e sia colui che – con il Cantico – sta alle origini della nostra letteratura nazionale.

Basterebbe questo per capire quanto sono profonde le “radici cristiane” della nostra cultura (del resto si tenga presente quanto la stessa lingua italiana deve alla Divina Commedia di Dante, il vertice di tutta la letteratura mondiale, che è anche il massimo capolavoro letterario del cattolicesimo). Francesco d’Assisi, con la sua vita, continua ad affascinare gli uomini di tutti i tempi. Anche quelli di oggi. È di una modernità impressionante perché è davvero uno dei pochi, veri uomini liberi. Libero da tutto.

Ma per questo suo fascino umano si perde sempre di vista la profonda svolta culturale che egli ha impresso alla storia. Non solo - come si è visto - alla letteratura. Anche, per esempio, alla spiritualità cristiana. Henry Thode ha notato che «fino al tempo di Francesco, la natura umana di Cristo era rimasta celata sotto la natura divina», rappresentata nella pittura bizantina, «ma ora veniva posta decisamente in primo piano».

L’amore di Francesco per l’umanità di Cristo (ad esempio per l’umiltà della sua nascita e per l’umiliazione della sua morte in croce) ha letteralmente contrassegnato tutta la spiritualità cattolica del secondo millennio. E quindi la sua arte. Francesco, «con la sua immaginazione poetica che gli ha permesso di vedere i segreti della vita cristiana nelle vicissitudini della vita terrena di Cristo» ha “rinnovato” la narrazione cristiana «così da metterla più direttamente alla portata dell’arte». La rappresentazione realistica dell’uomo ha cominciato a significare la raffigurazione della bellezza e della gloria di Dio.

Infatti il santo poverello- attraverso il ciclo giottesco di Assisi - sta, in qualche modo, anche alle origini della nostra grande pittura come ha spiegato Thode in Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia (Donzelli): «facendo della natura, fino ad allora disprezzata, l’intermediaria fra Dio e l’uomo, Francesco ha indicato all’artista cristiano la sola vera maestra che potesse dirigerlo... Il Rinascimento - o, per meglio dire, la nuova arte cristiana è cominciato nel XIII secolo... in Toscana. Da Giotto sino a Raffaello si è attuato nell’arte italiana uno sviluppo continuo, che ha avuto per fondamento un’unica concezione del mondo e di Dio».

Ma torniamo al Cantico delle creature che appare semplice se lo legge in modo superficiale, ma in realtà è profondo e decisamente anticonformista. Non è l’inno ecologista che molti credono. La lode a Dio del Cantico riecheggia chiaramente i salmi biblici, ma il tratto caratteristico di Francesco è in quelle due parole: frate e sora; la sua fratellanza con «tucte le Tue creature» è dovuta alla paternità del Creatore. Perché tutto parla di Lui.

Per capire che quella del santo non è la facile ammirazione della natura dell’uomo del XX secolo, che con la tecnologia domina sudi essa, bisogna ricordare che il Cantico è scritto in un tempo, il XIII secolo, in cui gli uomini subivano pesantemente, come fragili creature, tutte le avversità ambientali da cui ben poco potevano proteggersi e ripararsi. La natura, seppure bella, non era idilliaca per loro. Dunque poteva sconcertare chi chiamava “frate” ciò che tutti avvertivano come avverso o fonte di dolore.

Ma il Cantico nel finale s’innalza proprio al dramma umano guardando pietosamente i sofferenti: «Laudato si’, mi’ Signore, per quelli» che «sostengo infirmitate ed tribulatione/ Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,/ ke da Te, Altissimo, sirano incoronati». È il discorso delle Beatitudini di Gesù.

C’è perfino la lode per colei che più sentiamo nemica, che però diventa «sora nostra Morte corporale» perla resurrezione di Cristo: «beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati» perché - dice Francesco - aprirà la porta dell’eternità, la vita vera. Mentre il peccato è la sola avversità, la sola negatività da cui il Cantico mette in guardia: «guai acquelli ke morrano ne le peccata mortali». Com’è possibile lodare Dio per ogni cosa? Non si tratta di un’esercitazione letteraria: questa lode è la vita stessa di Francesco che scrive il suo canto di lode negli ultimi mesi di vita, quando è cieco e indicibilmente sofferente nel corpo.

Giustamente Franco Cardini ha ipotizzato che la sua lode appassionata sia una risposta anche alla «raggelante mitologia catara» che, essendo manichea/gnostica, considerava la materia come l’inferno in cui siamo imprigionati e il Creatore come “il malvagio Demiurgo”. Ma c’è un ultimo elemento nel Cantico. Il suo culmine è la lode a Dio «per quelli che ke perdonano per lo Tuo amore». Il perdono, per Francesco, è ciò che rende simili al suo amato Gesù, è ciò che divinizza l’uomo che così diventa davvero immagine dell’«Altissimu, onnipotente, bon Signore». Il quale perdona sempre e perdona tutto e così ricrea l’universo. Il perdono è amore anche per i nemici, è la grande forza di cambiamento della vita e della storia perché rompe la catena dell’odio e del male. E la rovescia. È il “potere” più grande.


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