Giustizia, l'ex capo cancelliere del tribunale di Milano: "Toghe impunite, timbrino il cartellino"
Nelle stanze dei tribunali italiani lavorano in silenzio decine di migliaia di persone. Non hanno la toga, hanno una busta paga che pesa all' incirca cinque volte meno di quella dei magistrati, non hanno potere e quindi nessuno li ascolta, ma dei segreti della giustizia sanno quasi tutto. Una volta si chiamavano Cancellieri, oggi impiegati, funzionari e dirigenti preferiscono essere definiti come addetti dell' Amministrazione della Giustizia. Quando ci si interroga sulla lentezza dei processi, sul banco d' accusa finiscono la carenza d' organico dei giudici e del personale in genere, i comportamenti dilatori degli avvocati, le norme procedurali che favoriscono le perdite di tempo. Politici, toghe, giornalisti, legali, imputati e contendenti, ognuno dice la sua. Nessuno però interpella mai qualche autorevole membro del nutrito esercito degli operatori del diritto stipendiati dallo Stato ma che non appartengono alla casta dei giudici. Lo abbiamo fatto noi di Libero, dando la parola a Luciano Conconi, dal 1987 funzionario negli Uffici del Palazzo di Giustizia di Milano. Sin dal tempo di Mani Pulite, ha avuto l' occasione di conoscere molti celebri magistrati. Si fregia del titolo di avvocato, ha diretto e coordinato diversi uffici e cancellerie della Procura, della Corte d' Appello Penale e Civile, del Tribunale per i Minorenni e del Giudice di Pace di Milano, sino all' ottobre 2014, quando è andato in pensione. Nominato giudice nella Commissione Tributaria Provinciale di Milano nel dicembre 1995, su segnalazione dell' alto magistrato Livia Pomodoro, e tuttora all' opera, grazie a tale incarico il Conconi da circa 25 anni lavora pari a pari con altri giudici, emette e redige le sentenze a lui assegnate come relatore. Nelle ultime tre decadi l' ex funzionario ne ha viste tante, ma sentite ancora di più e ora ha deciso di collaborare con Libero per fornirci la sua radiografia spietata della giustizia italiana, vista dall' interno e da angolazioni diverse per molto tempo. Conconi, perché la giustizia non funziona? «Come in tutti i lavori e in ogni ufficio, se mancano i due elementi fondamentali rappresentati dall' organizzazione efficiente e dai controlli sul personale, la produttività è un' incognita affidata alla buona volontà del singolo». La giustizia non funziona perché i magistrati non sono uomini di buona volontà? «In Italia ci sono circa 8.800 magistrati, quasi tutti molto qualificati e laboriosi. Parecchi sono in aspettativa o distaccati nei Ministeri. Degli altri, molti lavorano tantissimo, specie quelli delle sedi minori, oberati dalle cause. Poi, come in tutti i luoghi di lavoro ci sono i furbi, nel caso di specie favoriti dall' assenza del cartellino, ovverosia dell' obbligo di timbrare, e da norme alquanto favorevoli alla categoria». Mi spieghi Conconi: nel complesso i giudici lavorano o no? «L' insieme dei problemi che gravano sul processo, può stressare molti giudici. Ne ho visti tanti, dopo anni, assuefatti al logorio, e a quel punto, delle due l' una: o si adeguano all' andazzo, creando arretrato e rinviando le udienze di mesi, oppure cercano uffici meno disagiati, scaricando il lavoro accumulatosi su altri, spesso neo magistrati». Se la giustizia non funziona quindi è colpa dei magistrati? «Io direi delle leggi, che non li agevolano a lavorare meglio né a lavorare per un tempo quanto meno uguale agli altri dipendenti pubblici; quindi qualcuno ne approfitta, come in ogni pubblico impiego. D'altronde anche le toghe sono in fondo dei funzionari statali». Però non hanno uno stipendio da travet e gestiscono un potere dello Stato «Questo è vero, ma sono uomini prima che giudici». Si dice che la giustizia è lenta perché i magistrati sono pochi «In Francia e Gran Bretagna sono ancora meno, ma sono anche molto meno i processi». Si dice che i processi durano tanto perché c' è poco personale non togato «Il problema non sono i funzionari e gli impiegati, che timbrano il cartellino tutti i giorni. Il punto è che un magistrato viene in ufficio due volte a settimana, non di rado anche una sola volta. Ma soprattutto il controllo sulle toghe - a differenza di quello sul personale amministrativo - è meramente formale. Se introducessero controlli seri facendo timbrare il cartellino anche ai magistrati, sono convinto che il sistema starebbe meglio e i tempi della giustizia si accorcerebbero». Non è una soluzione un po' semplicistica? «Anzitutto si tratta di applicare il principio di uguaglianza e parità tra dipendenti dello Stato; poi si sa, l' esperienza insegna che se non sei in ufficio, puoi essere ovunque, anche a giocare a tennis o con l' amante. E poi i magistrati prendono il buono pasto anche se sono assenti dall' ufficio, residenti a duecento chilometri o per la doppia attività nelle Commissioni Tributarie». Ci sono le sentenze che dovrebbero dare una misura della loro produttività «La produttività della singola toga si conosce dalle statistiche individuali. Ci sono i tempi di deposito delle sentenze, il numero di impugnazioni e di riforme del verdetto. Però non c' è nessuna sanzione contro i fannulloni, salvo casi recidivi e gravi. La carriera dei giudici è automatica e procede per anzianità, indipendentemente da quanto e come un magistrato lavora. Non ci sono incentivi per migliorare la produttività e premiare i più laboriosi, come avviene nel settore privato». Toga non mangia toga? «C' è una sorta di impunità, salvo i casi gravi a seguito di esposti o denunce da parte di cittadini o avvocati agli Organi superiori». Chi dovrebbe controllare i giudici? «In sede, il Presidente dell' Ufficio dove opera il magistrato; ovvero il Presidente della Corte di Appello che ha poteri di vigilanza nel distretto. Ma il potere di vigilanza e di controllo in generale spetta anche al Ministro della Giustizia e al Csm, l' organo di auto governo dei magistrati che ha il potere di sanzionare, finanche sospendere o radiare un magistrato». Perché non controllano? «Come tutte le lobby, caste, settori privilegiati o altro, anche quella dei magistrati è gelosa della propria libertà gestionale lavorativa. Inoltre è comprensibile che si faccia quadrato a difesa dei propri privilegi, ed è opportuno non lamentarsi se qualche collega lavora poco e male, perché se controllano lui, prima o poi qualcuno controllerà te. Meglio non rompere e farsi gli affari propri». Gli affari propri? «Inteso in senso lato, che comprende da lavorare poco a lavorare il giusto, da non ottenere alcun vantaggio, ad approfittarne per migliorare le proprie relazioni sociali-economiche. In Commissione tributaria, ma non solo, ho visto alcuni casi di conflitti di interesse in atti d' ufficio. Specie in passato, taluni giudicanti erano commercialisti. Per quanto riguarda i magistrati, quando svolgono l' attività di arbitro per banche o società commerciali, si pone il dubbio sulla loro indipendenza da un settore economico di così rilevante importanza che poi gli si può ripresentare in ambito tributario o di giustizia ordinaria. È vero che c' è l' obbligo di una autocertificazione con cui ogni giudice dichiara di non svolgere - né lui né i famigliari - attività in conflitto di interessi; ma sappiamo bene come si possa occultare con prestanomi un' attività larvata». Ha altri esempi? «Prima che entrasse in vigore il sistema di notifica via posta elettronica, molti processi venivano rinviati perché nel percorso cancelleria-Ufficio Notifiche-cancelleria e udienza, il giudice non trovava il riscontro dell' avvenuta notifica all' imputato. Il dubbio era forte quando le ricevute sparivano dal giorno prima dell' udienza Pensare male si fa peccato, però qualche vota ci si azzecca». Perché in Italia le sentenze di primo grado vengono spesso impugnate? «Le sentenze vengono scritte in fretta e inevitabilmente possono essere mal argomentate, vuoi perché il magistrato è oberato, a causa della scarsa operosità dei colleghi, vuoi perché si applica per il poco tempo a disposizione. Conseguentemente, molte sentenze sono più riformabili in appello o in Cassazione. È per questo che circa il 90% delle sentenze sono impugnate e la metà di esse viene riformata in appello». Secondo lei i magistrati sono politicizzati? «Non nel senso che pensa la gente. I magistrati hanno costituito delle associazioni sindacali interne, nel rispetto della Costituzione; è una sorta di politica-sindacale che si difende e fa i propri interessi. Altra cosa è quando vengono tirati per la giacchetta dai mass-media o dai partiti politici o arrivano finanche a entrare in politica ed essere eletti in Parlamento. Per costoro, a mio giudizio, un solo consiglio: magistratura e politica sono incompatibili: un magistrato non solo deve essere indipendente, ma deve anche apparire come tale. Il legislatore su questo deve intervenire per mettere paletti, se la legge non pone limiti o confini, il giudice si sente libero». Pensa che la riforma del processo penale che il governo vuole varare migliorerà la situazione? «Sono scettico. Io ho fatto la tesi di laurea con Giandomenico Pisapia, il padre dell' ex sindaco di Milano, nonché padre della riforma del codice di procedura penale vigente. Un genio del diritto, ma il trapianto della procedura anglosassone nell' impianto dei processo italiano, di cultura latina, è fallito. Abbiamo copiato certi istituti senza contestualizzarli. Per questo alla fine di ogni processo penale non si capisce mai se uno è colpevole o innocente». Vola alto, avvocato? «Le pare normale che uno venga assolto in primo grado e poi magari in grado d' appello condannato a trent' anni o viceversa? Succede perché il codice dà ai magistrati la facoltà di decidere in base al loro libero convincimento, ossia a ciò che pensano rispetto agli elementi probatori processuali acquisiti; mentre nel sistema anglosassone la sentenza si emette solo sulla base delle prove certe che si raccolgono nel processo. Anche da noi il processo è accusatorio, ma è chiaro che non c' è nulla di più opinabile del libero convincimento, in base al quale un magistrato può decidere di condannare per degli indizi o di assolvere sorvolando su talune prove. E quindi sono inevitabili appelli, ricorsi e nuovi e diversi liberi convincimenti. D' altronde le cronache giudiziarie non dicono altro». Non c' è speranza... «I magistrati sono i primi a non volere la riforma della giustizia come viene proposta. Come si può pensare che riformi in meglio la giustizia prospettando timidi tentativi che non risolvono le vere cause? Per far funzionare l' intero sistema giudiziario servono pochi interventi specifici e radicali, in grado di incidere sulle cause dell' annoso problema della giustizia denegata, introducendo norme specifiche per favorire procedure rapide, processi alternativi veloci e inappellabili e limitando fortemente il libero convincimento dei giudici. Il tutto farcito con controlli seri sugli operatori giudiziari, responsabilizzando i Capi degli uffici, con sanzioni nei confronti dei furbetti del cartellino, toghe e direttori compresi». di Pietro Senaldi