Gaucci, l'uomo che portò in A il Perugia e mandò in B Fini: "La prima volta che vide Elisabetta Tulliani"
«Gaucci, noi siamo di serie A!», gli urlò Matarrese, invitandolo alla calma nel post-partita caldissimo di un Perugia-Bari del 1999. Al che lui, Luciano Gaucci, patron della squadra umbra, rispose, fregandosene di ogni bon ton: «Vai fare in c... te e tuo fratello. Zozzone. Venduto. Cornuto. Figlio di m». In questo scambio di battute c' è un po' tutto Lucianone, presidente ingombrante non solo per la stazza, scomparso ieri all' età di 81 anni a Santo Domingo. C' è il suo carattere fumantino, il suo essere cavallo di razza, e un po' cavallo pazzo. E diciamo "cavallo" non a caso dato che, proprio acquistando un puledro, tale Tony Bin, Gaucci costruì la sua fortuna: lo comprò a 12 milioni di lire ma, dopo una serie di vittorie del quadrupede, riuscì a rivenderlo a 7 miliardi: il primo caso di plusvalenza equina, in cui il darsi all' ippica non fu una deminutio. E d' altronde, nelle scommesse di gioco, Gaucci ebbe sempre un certo fiuto: fece un 13 al Totocalcio che gli svoltò la vita; e anni dopo azzeccò un miliardario Superenalotto che gli avrebbe procurato molta grana ma anche molte grane. E tuttavia Lucianone era anche uomo di calcio giocato, e giocato in serie A, come gli ricordava Matarrese. Nella massima serie riuscì a portare il Perugia, grazie a una cavalcata epica a partire dalla serie C con tre promozioni in cinque anni. In serie A fece fiorire il mito Perugia, quello fatto di giocatori-icona dell' Oriente, da Nakata, primo giapponese ad affermarsi da noi, fino ad Ahn, il coreano che poi Gaucci licenziò in diretta tv quando quello "osò" segnare un gol contro l' Italia. In serie A lui creò dei personaggi, come l' allenatore Serse Cosmi, ne portò altri discutibili, come lo scarsissimo figlio di Gheddafi, e comunque riuscì a proiettare quella squadra ai vertici fino a farle vincere un trofeo, l' indimenticabile Coppa Intertoto. In serie A Gaucci si prese pure il lusso di far perdere un campionato alla Juve in quel pomeriggio di diluvio del 2000 in cui fu un gol di Calori a spegnere le speranze bianconere. Ma Gaucci fu personaggio strabordante oltre i confini del Perugia. Fu il presidente che non si accontentava di avere una squadra ma ne voleva due: tenne allo stesso momento il Perugia e la Viterbese, e poi il Catania e la Sambenedettese. E fu patron lungimirante facendo debuttare, per primo e ultimo, sulla panchina di una squadra di calcio maschile una donna: Carolina Morace. Le sue vicende si legano però indissolubilmente anche ai suoi rapporti sentimentali e "politici". Gaucci fu fidanzato di Elisabetta Tulliani, la donna che sarebbe diventata poi compagna di Gianfranco Fini. Fu lui stesso a raccontare in un libro, Luciano Gaucci. Latitante ai Tropici, il modo in cui l' allora leader di An e la Tulliani si conobbero, quando questa era ancora legata al vulcanico presidente: «A un certo punto incrociammo con lo sguardo Fini che stava uscendo dal Parlamento. Lui ci vide e, senza curarsi del traffico, attraversò, fermandosi al centro della carreggiata per salutarci e abbracciarci. Meglio, per salutare e abbracciare lei! Le macchine suonavano all' impazzata i clacson. L' onorevole però non stava a sentì i clacson della gente! L' onorevole se stava a innamorà!». Quella che poteva sembrare una beffa per Gaucci si dimostrò la sua fortuna. Perché ebbe modo di liberarsi della Tulliani che infiniti guai avrebbe addotto al «coglione», per autodefinizione, Fini. Nello stesso periodo, secondo la sua versione, Lucianone aveva fatto crescere come suo assistente nella Viterbese Giancarlo Tulliani, ossia il fratello di Elisabetta, poi divenuto tristemente noto come proprietario della casa di Montecarlo. Quel virgulto, che anni dopo Gaucci avrebbe definito «un ragazzo un po' strano che dove va fa guai», sarebbe stato la rovina di Fini, la ragione della sua fine politica. Il patron del Perugia fece in tempo a starne alla larga prima di rifugiarsi, a seguito di impicci giudiziari, nella Repubblica Domenicana. E in fin dei conti non è male essersi spento a Santo Domingo per un uomo che la domenica l' ha sempre santificata, andando allo stadio. di Gianluca Veneziani