Luciano De Crescenzo, il filosofo amato da tutti e snobbato dai critici
«Solo gli imbecilli non hanno dubbi». Lucià, ne sei sicuro? «Senza dubbio». Era così, l' uomo. Luciano De Crescenzo, nel declinare la sua personale idea d' umanità, si aggrappava sempre all' ultima battuta. Ora che a 91 anni se n' è andato per le conseguenze di una brutta polmonite, tutta la sua invincibile napoletanità ci arriva - assieme al dolore, alla tristezza e a una precoce nostalgia - come uno schiaffo in faccia. Adesso, finalmente, come si fa in Italia con i morti e a cadavere caldo, Luciano potrà godersi il tributo dei soloni della letteratura che l' avevano sempre snobbato da vivo («Coi premi io vado maluccio: non dico vincere lo Strega, o il Campiello, o il Viareggio, per carità, sennò i giurati scrittori della domenica, poveretti, sai l' imbarazzo, ma almeno un premio minore», mi diceva). E questo nonostante fosse lo scrittore italiano più venduto al mondo, una sorta di Stephen King nostrano a livello di box office: cinquanta libri tradotti in diciannove lingue - l' ultimo Napolitudine con Alessandro Siani- e all' incirca 30 milioni di copie. Adesso, dal suo studio ai Fori Romani, io me lo vedo trafiggere l' orizzonte col suo sguardo di deliziosa vaghezza, la sua faccia da Agamennone in pensione e il mezzobusto inschiodabile dalla scrivania - essere mitologico metà uomo metà sedia come il portiere di Così parlò Bellavista; e da lì Luciano potrà godersi il film della sua vita. L' infanzia passata, dopo essere scampato ai campi di concentramento di Cassino, al quartiere napoletano di San Ferdinando dove con l' amico Carlo Pedersoli in arte Bud Spencer giocava a fare Lothar e Mandrake; e il lavoro svolto controvoglia nella guanteria del padre e gli studi di matematica sostituiti a quelli di filosofia a causa di una studentessa bella uagliona; e i 20 anni trascorsi all' Ibm da ingegnere idraulico e l' incontro fatale con Maurizio Costanzo che, al Maurizio Costanzo Show, ne trasforma un pamphlet su Napoli da 7mila copie in un successo palnetario da 788mila. Saggi e sceneggiature - Eppoi Renzo Arbore a la sua allegra brigata di Sherwood, le migliaia di saggi sui filosofi, le sceneggiature dei film e il David di Donatello, i cazzeggi meravigliosi alla Campanile. L' esistenza di De Crescenzo, mix di allegra melanconia, è stata un incrocio fra un fado e una tarantella. A Napoli dicono "appassiulato". Tra i suoi romanzi più importanti è doveroso citare: Oi dialogoi (1985), Sembra ieri (1997), La distrazione (2000) e Il tempo e la felicità, con cui nel 1998 vince il Premio Cimitile. Ma sono i saggi di filosofia a dargli la fama di divulgatore culturale: Storia della filosofia greca - I Presocratici (1983), Storia della filosofia greca - Da Socrate in poi (1986), Storia della filosofia medievale (2002), Storia della filosofia moderna - da Niccolò Cusano a Galileo Galilei (2003), Storia della filosofia moderna - da Cartesio a Kant (2004), Il pressappoco (2007), Il caffè sospeso (2008), Socrate e compagnia bella (2009). E, poi, vi sono i libri storici dal titolo irriverente: Ulisse era un fico (2010), Tutti santi me compreso (2011), Fosse 'a Madonna (2012), Garibaldi era comunista e Gesù è nato a Napoli (2013). De Crescenzo, nel corso degli anni '80 e '90, ha condotto sulla Rai Zeus - Le Gesta degli Dei e degli Eroi, una trasmissione sui miti e sulle leggende degli antichi greci, ritrasmessa anche da Mediaset. Ma il suo punto forte non erano i libri, era il carattere. Luciano sembrava sempre uno di quei saggi di quartiere usciti dalla penna di Eduardo Scarpetta. I suoi pensieri erano calambour, motti irriverenti, distillati di filosofia, sia che fossero sulle donne (quando la fidanzata Isabella Rossellini, trent' anni e venti in meno di lui, gli disse: «Lucià tu sie l' amante più vecchio che ho avuto», lui rispose: «Pure tu»), su Napoli («È come una donna capricciosa di cui sono perdutamente innamorato: per quanto mi faccia arrabbiare, non riesco a non perdonarla»), o sulla sua arte della divulgazione, tanto odiata dai colleghi e tanto amata dai lettori («C' è differenza tra chi copia da un altro autore e chi da autori diversi. Nel primo caso è reato, si chiama plagio, nel secondo è cosa lodevole, e si chiama ricerca»). Negli ultimi tempi Luciano aveva pochissima vita sociale. Direi nulla. La strategia personale - Eppure, quando l' incontravi ti sorrideva sempre, col sorriso di una frequentazione quotidiana. E ti faceva parlare di tutto, muto, affogando, con lodevole spirito socratico, nella tua logorrea. Solo dopo molti anni scoprii che, in realtà, soffrendo di prosopagnosia, una malattia rara che ti impedisce di riconoscere i volti, quella era la sua personale strategia per non metterti in imbarazzo e per tracciare il tuo identikit con la voce. Era separato da quasi 60 anni, aveva una figlia e vari nipoti. Amava la vita quanto la letteratura, credeva nello scorrere eracliteo dei sogni e dei sentimenti. Mi confessò che sarebbe vissuto «fino a 88 anni, massimo 89». Ha cannato di poco. Sul funerale aveva una fissazione: «Ahò, io 'so contento se Camilleri e Tamaro fanno 3 milioni di copie, perché attirano il 62% dei non-lettori, dove pesco pur' io. Ma qui devo morire per essere valorizzato. Mò fingo, e poi vedo chi c' è al funerale»; e magari ora sarà accontentato. Se n' è andato come due dei suoi eroi minori, nel silenzio gentile di Raffaele e col cinguettio favoloso di Zio Cardellino. E tutti noi, oggi, abbiamo perso un pezzetto della nostra umanità. Davvero senza dubbi, Lucià. di Francesco Specchia