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Mughini: Priebke, il carnefice di serie B che diventa simbolo del male

Giampiero Mughini ed Erich Priebke

E' morto a 100 anni il boia delle Fosse Ardeatine. Ma i veri responsabili del massacro furono Dannecker e Kappler: lui era uno dei tanti

Andrea Tempestini
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Nato in Germania il 29 luglio 1913, l'ex ufficiale delle SS Erich Priebke è morto ieri a Roma pochi mesi dopo aver compiuto i 100 anni. Quel maledetto pomeriggio del 24 marzo 1944 lui era stato uno dei militari tedeschi che per oltre quattro ore spinsero a gruppi di cinque 335 italiani all'interno delle Cave Ardeatine, e a ciascuno spararono un colpo alla nuca a farlo cadere sui cadaveri di quelli che erano stati assassinati pochi minuti prima. L'ordine della rappresaglia era venuto direttamente da Adolf Hitler e dall'Alto comando tedesco, dieci italiani per ognuno dei tedeschi morti nell'agguato di via Rasella portato da un gruppo di partigiani comunisti il pomeriggio precedente. A comandare il macello era stato il capo della Gestapo a Roma, il tenente colonnello Herbert Kappler (nato nel 1907, aveva in quel momento 37 anni), che nel 1948 sarà poi condannato all'ergastolo da un tribunale italiano per poi riuscire a evadere il 15 agosto 1977 e morire in Germania di un tumore pochi mesi dopo. Durante gli anni della sua detenzione Kappler aveva ricevuto la sua pensione di militare dal governo della Germania Occidentale, ed erano stare numerose le richieste che esponenti di quel governo avevano fatto all'Italia di usare clemenza nei confronti di Kappler. Quanto a Priebke, nel tempo in cui venne organizzato e attuato il macello delle Ardeatine era un ufficiale subordinato, assieme a tanti altri di cui non sappiamo né il nome né l'esistenza. Diceva di sì agli ordini che riceveva. Uno dei tanti e tantissimi ufficiali e soldati nazi che durante la Seconda guerra mondiale apportarono la morte dappertutto in Europa, dall'Olanda alla Francia all'Ucraina. Tanti e tantissimi di quelli che braccarono gli ebrei, anche se bambini o donne di 90 anni, a Varsavia come a Roma. E a proposito di Roma e della razzìa del 16 ottobre 1943, di cui fra pochi giorni scatta il settantesimo anniversario, furono poco più di 300 i soldati scelti delle SS che alla mattina di quel sabato scattarono ad acciuffare oltre 1200 ebrei (200 verranno poi rilasciati) che abitavano al Ghetto o magari a Trastevere o magari a 100 dalla casa romana di Monteverde dove abito. A comandare l'azione era un trentenne capitano delle SS di nome Theo Dannecker, quello che già aveva supervisionato la razzia del luglio 1942 di ebrei abitanti a Parigi ma che non avevano la cittadinanza francese, e in quella occasione ne agguantarono circa 13mila. A Parigi il lavoro sporco lo fecero i poliziotti francesi agli ordini del governo di Vichy. A Roma furono i nazi a bussare alle porte delle famiglie ebree. Furono in molti i fascisti o filofascisti che aiutarono tanti degli ebrei romani a nascondersi. Non un giornale italiano diede notizia della razzìa all'indomani del 16 ottobre. Non uno degli ufficiali tedeschi che comandarono la razzìa del 16 ottobre è stato mai portato innanzi a un tribunale. Quanto a Dannecker la canaglia, gli americani lo catturarono a guerra finita, il 9 dicembre 1945. Tre giorni dopo si impiccò alla finestra della sua cella. Quanto a Priebke, se paragonato nell'ordine delle canaglie a uno come Dannecker e a migliaia e migliaia di altri che avevano messo in fila le vittime a Treblinka o a Kiev, era una canaglia che spiccava così e così. Solo che a partire dal 1995, quando venne estradato in Italia dall'Argentina dove aveva vissuto tranquillamente dalla fine della guerra in poi, divenne un simbolo, uno su cui concentrare la memoria del Male. A leggere qualche articolo un tantino raffazzonato sul macello delle Ardeatine, sembrava che ne fosse stato lui l'organizzatore e il capintesta. Ancora ieri ho letto sul web articoli in cui lo si indicava come «il responsabile» della rappresaglia del 24 marzo 1944. La comunità ebraica romana, di cui erano talmente aperte le cicatrici dell'orrido 16 ottobre 1943 e di quel massacro delle Ardeatine dove vennero assassinati 70 ebrei colpevoli solo di essere ebrei, lo elesse da subito a suo nemico per antonomasia. Furono dei giovani ebrei a eruttare la loro rabbia nell'aula del tribunale romano dove il 1° agosto 1996 i giudici pronunciarono la sentenza di primo grado che in parte assolveva Priebke e in parte giudicava i suoi reati prescritti. La controffensiva di un'opinione pubblica che aveva eletto Priebke a simbolo, e tanto più che lui ribadiva più e più volte che non aveva nulla di cui pentirsi, rimise Priebke nelle mani dei giudici. E fu un singolare saliscendi di sentenze, evidentemente fin troppo marcate dalla commozione diffusa per i fatti strazianti del 1943 e del 1944. Una prima condanna a 15 anni, una seconda condanna ridotta per motivi di salute a 10 anni, la condanna definitiva (nel 1998) all'ergastolo. Quando Priebke aveva già 85 anni e quando di ex criminali nazi detenuti nelle celle di tutto il mondo ne erano rimasti quante le dita di due mani. Quindici anni sono passati dal momento della condanna e fino alla sua morte. Prima gli arresti domiciliari, poi il permesso di uscire da casa per andare a comprare cibo e farmaci, un permesso che in molti a Roma contestavano e contro il quale rumoreggiavano. Per un tempo gli fu accordata la possibilità di lavorare qualche ora nello studio del suo avvocato e di trarne qualche quattrino. Possibilità successivamente revocata, tanto che Priebke non aveva nemmeno di che pagare le spese processuali per una querela che aveva intentato contro il capo della comunità ebraica romana, un processo in cui i giudici gli avevano dato torto. Giustizia applicata per come deve essere applicata anche se nei riguardi un ultranovantenne, ovvero eccesso di accanimento e di furia simbolica? Rispondete voi. Ancora pochi mesi fa, in occasione di una sorta di brindisi che alcuni amici avevano organizzato per il suo centesimo compleanno, ci fu un notevole frastuono sui media italiani. Adesso che Priebke è morto, il suo avvocato dice che ha lasciato una specie di intervista-testamento in cui ripete per l'ennesima volta che non «rinnega» quel che lui era durante la Seconda guerra mondiale. Durante quella tragedia dell'umanità costata 50 milioni di morti. di Giampiero Mughini

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