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San Francesco non applaude Scalfari e compagni

Nelle lettere a potenti e intellettuali, il 'poverello' di Assisi non fa nessuna concessione in nome del dialogo con la modernità

Antonio Socci
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La visita del Papa ad Assisi riporta agli onori della cronaca il più famoso dei santi, quello di cui Bergoglio ha preso il nome. Francesco d'Assisi però è anche il più incompreso dei santi, perché fu l'opposto esatto del santino che ne fanno oggi i media, rappresentandolo come uno svagato ecologista, ecumenista e buonista umanitario. Il cardinal Biffi, celebrandone la festa ad Assisi nel 2004, disse che vedeva in giro «un francescanesimo di maniera, svigorito in un estetismo senza convinzioni esistenziali», un brodino tale «che tutti lo possano assumere senza ripulse e drammi interiori, stemperato in una religiosità indistinta che non inquieti nessuno». Invitava dunque a conoscere l'opera e la figura di Francesco «nella loro verità». La verità di questo santo è l'adesione totale e assoluta al Vangelo, letteralmente. Sine glossa. Senza accomodamenti con la mentalità dominante. Senza quelle concessioni allo spirito dei tempi che qualche cattolico oggi fa in nome del «dialogo col mondo» e della cosiddetta «apertura alla modernità».  Per capire cosa significa ai giorni nostri – come suggeriva Biffi - bisogna rileggere le sue (quasi sconosciute) lettere considerandole scritte per i tempi odierni. Scopriremo che oggi Francesco verrebbe sicuramente liquidato dai media come «un fanatico», un «fondamentalista», un cattolico «integralista e reazionario». Prendiamo la lettera che scrisse «a podestà, consoli, magistrati e reggitori dei popoli», cioè tutte le cariche pubbliche (non solo i politici). Pensate che abbia fatto loro l'elenco dei problemi sociali, parlando di disoccupazione, pace, ambiente o economia? Tutt'altro. Li esortò potentemente a professare la fede cattolica per salvare le anime loro e quelle dei loro popoli: «Ricordate e pensate che il giorno della morte si avvicina. Vi supplico allora, con rispetto per quanto posso, di non dimenticare il Signore, presi come siete dalle cure e dalle preoccupazioni del mondo. Obbedite ai suoi comandamenti, poiché tutti quelli che dimenticano il Signore e si allontanano dalle sue leggi sono maledetti e saranno dimenticati da lui. E quando verrà il giorno della morte, tutte quelle cose che credevano di avere saranno loro tolte». Proseguiva (e penso a intellettuali e giornalisti): «E quanto più saranno sapienti e potenti in questo mondo, tanto più dovranno patire le pene nell'inferno. Perciò vi consiglio, signori miei, di mettere da parte ogni cura e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo in sua santa memoria». Continua (e faccio una dedica a tutti quei politici e governanti che oggi cancellano ogni memoria cristiana): «Siete tenuti ad attribuire al Signore tanto onore fra il popolo a voi affidato, che ogni sera si annunci, mediante un banditore o qualche altro segno, che siano rese lodi e grazie all'onnipotente Signore Iddio da tutto il popolo. E se non farete questo, sappiate che dovrete renderne ragione (cf. Mt. 12,36) a Dio davanti al Signore vostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio». San Francesco indirizzò poi un'altra lettera ai semplici fedeli laici a cui raccomandò di stringersi alla «dolcezza» e «soavità» del Signore Gesù, osservando i comandamenti e facendo penitenza.  Chi invece non segue Cristo è esortato a convertirsi e se persevera nel peccato è accoratamente ammonito dal santo di Assisi: «Costoro sono prigionieri del diavolo… essi vedono e riconoscono, sanno e fanno il male, e consapevolmente perdono la loro anima». Perché «chiunque muore in peccato mortale… il diavolo rapisce l'anima di lui… e tutti i talenti e il potere e la scienza e la sapienza che credevano di possedere sarà loro tolta… e andranno all'inferno dove saranno tormentati eternamente». C'è poi una lettera di san Francesco ai sacerdoti. Anch'essa sorprendente, perché non esorta i sacri ministri all'azione sociale o all'attività umanitaria, ma li esorta principalmente a tributare il massimo onore «al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo». Il santo infatti è addolorato perché da molti «il corpo del Signore viene collocato e lasciato in luoghi indegni, viene trasportato senza nessun onore e ricevuto senza le dovute disposizioni e amministrato senza riverenza». Sembra qui di sentir riecheggiare la preoccupazione di Benedetto XVI, il suo invito a cessare gli abusi liturgici del postconcilio, il desiderio di riportare il sacrificio eucaristico, con i più santi riti, al centro della Chiesa e l'adorazione al cuore della vita (proprio di recente alcuni figli spirituali del santo, i Francescani dell'Immacolata, hanno fatto parlare di sé per l'amore alla sacra liturgia). Eguale sottolineatura san Francesco fa per le preziose parole del Signore, ossia il Vangelo, alla cui difesa (dagli attacchi ideologici) papa Benedetto ha dedicato tre poderosi libri. Dice san Francesco: «Anche i nomi e le parole di lui scritte talvolta vengono calpestate, perché “l'uomo carnale non comprende le cose di Dio” (1Cor 2,14). Non dovremmo sentirci mossi a pietà per tutto questo, dal momento che lo stesso pio Signore si consegna nelle nostre mani e noi l'abbiamo a nostra disposizione e ce ne comunichiamo ogni giorno?». Ecco perché san Francesco ha un particolare atteggiamento di venerazione per la santa Chiesa. Da quando riceve dal crocifisso di San Damiano il mandato «Ripara la mia Chiesa» egli avrà per la Sposa di Cristo solo parole di amore. E quando va a sottoporsi al giudizio della Santa Sede dice con tenerezza: «Andiamo dalla madre nostra». E quando sa di ecclesiastici indegni o corrotti (e ce n'erano!) lui va a baciare le loro mani perché sono quelle mani che consacrano il corpo del Signore. E di fronte alla corte pontificia non lancia strali e anatemi sui lussi e le vanità ecclesiastiche, ma, povero e umile, promette l'obbedienza sua e quella dei suoi frati ai pastori stabiliti da Cristo. Infine nella sua «Regola non bullata» invita i suoi frati a dare testimonianza a Cristo (fino al martirio) anche «tra i saraceni e gli altri infedeli» (del resto lui stesso andò ad annunciare Cristo al Sultano e molto presto i suoi frati ricevettero il martirio). Non ritenne la testimonianza un deteriore «proselitismo». Infatti per lui la conversione era la via della salvezza. Anche il tema della «povertà», centrale nell'esperienza francescana, è stato totalmente frainteso. Per il santo la povertà non era una condizione sociale da sradicare, ma anzi un modo di vita da abbracciare con amore. Non considerava infatti la «povertà» una categoria economica, ma teologica. La riferiva al Figlio di Dio che «spogliò se stesso assumendo al condizione di servo», Colui che «da ricco che era», cioè Dio, si fece uomo di carne mortale, che annientò se stesso per la salvezza degli uomini. La povertà di Francesco era memoria dell'incarnazione. Questo è il santo di cui papa Bergoglio ha preso il nome e che oggi va ad omaggiare ad Assisi. Lui che è il primo papa gesuita sa che storicamente un certo filone del gesuitismo si è duramente scontrato con la radicalità evangelica di san Francesco. C'è infatti una parte del movimento gesuitico che – invece di innalzare gli uomini al Vangelo (come san Francesco) – ha pensato di abbassare il Vangelo ai costumi delle genti e alle culture delle corti principesche. È la polemica contro i gesuiti del Pascal delle «Lettere provinciali» che li accusò di lassismo. Anche il dotto gesuita Matteo Ricci in Cina ritenne di poter accettare riti pagani e culture ritenute invece inaccettabili dai francescani (la Santa Sede dette ragione a questi ultimi e i gesuiti si giocarono il favore della corte cinese). Del resto fu un papa francescano, Clemente XIV a sopprimere nel 1773 i gesuiti. Dunque anche oggi c'è un bivio, bisogna scegliere fra la radicalità di san Francesco e – per fare un esempio attuale – lo «spirito dialogante» col mondo del gesuita cardinal Martini. di Antonio Socci

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