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Vergogna Ingroia: pagato (da noi) per non lavorare

L'eroe della legalità ignora le leggi e pur di non andare ad Aosta si fonda un nuovo partito

Matteo Legnani
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di Filippo Facci È un magistrato e però non lavora, percepisce uno stipendio pubblico e però intanto scioglie e rifonda partiti, evidentemente pensa di poter fare tutto quello che vuole e però non ci riesce. Si chiama Antonio Ingroia e, ancora una volta,  rappresenta un caso di cui  sentivamo un drammatico bisogno. Cominciamo dalla fine. L'uomo ha annunciato lo scioglimento di Rivoluzione Civile (per maturarne una «riflessione profonda», si legge in una nota) e però ha subito presentato una nuova formazione politica, Azione civile, «una struttura leggera» che sarà leggera anche perché non ha più soldi: il partitello sinora si era retto grazie a un milione di euro dell'Italia dei Valori (finanziamento pubblico) più 50mila euro per le regionali nel Lazio e altri 90mila per candidati vari. Il dettaglio è che, nel mezzo di tutto questo, Ingroia continua a essere formalmente un magistrato: è stato in aspettativa per un breve periodo - al termine dell'infinito tira e molla sul Guatemala - e però questa aspettativa è scaduta nel giorno della proclamazione degli eletti, precisamente durante la seduta inaugurale delle Camere. Allora, come è noto, Ingroia ne ha chiesta un'altra per andare a presiedere Riscossione Sicilia spa, la società regionale che riscuote le tasse: ma a inizio aprile la Terza commissione del Csm ha detto «no» come aveva sempre fatto per casi analoghi, quando altri magistrati, cioè,  avevano ambito a incarichi amministrativi e dirigenziali nelle Asl o in Authority o all'Agenzia delle Entrate. Il plenum del Csm, con ogni probabilità, ratificherà la decisione l'8 maggio: resta il fatto che intanto Ingroia è stato destinato ad Aosta e e in teoria il Csm l'ha pure favorito, perché da principio era previsto che in quella sede rivestisse le funzioni di giudice e non di procuratore come invece è poi stato indicato. Era previsto che si presentasse ad Aosta proprio ieri, ma gli hanno fatto un altro favore e hanno spostato la data al 16 maggio: se quel giorno non si presentasse, di fatto, sarebbe fuori dalla magistratura, nel senso che lo caccerebbero. Pazienza: lui intanto continua a prendere lo stipendio - benché privato dei mille euro di indennità di presenza - e lo becca per non fare niente, in attesa della sentenza del Tar (23 maggio) a cui intanto ha fatto ricorso visto che ad Aosta proprio non ci vuole andare. E come attende, questo servitore dello Stato, la decisiva sentenza? Fondando un partito. In Italia i magistrati non possono fondare partiti, ma lui l'ha fatto. Eppure l'aveva detto lo stesso Ingroia, in passato, che una sua discesa in politica sarebbe stata «irreversibile»: ora scopriamo che è reversibile. Il punto è che Ingroia vuole tutto: essere un magistrato stipendiato, andare fuori ruolo quando vuole e dove vuole e per ciò che vuole, fondare partiti, e sparare infine sulla magistratura cui appartiene qualora non gli conceda ogni cosa. Il fatto che un togato non possa fondare partiti pare così ovvio che non occorrerebbe citare le fonti: ma basti l'articolo 8 del Codice Etico della Magistratura (recepito dal Csm e introdotto come legge nel 1993) secondo il quale il magistrato deve evitare «qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitico o affaristici che possano condizionare l'esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l'immagine». Appannare l'immagine di Ingroia non è semplice, data la nebbiosità dell'uomo: ma forse è proprio ciò di cui la Magistratura (quella «democratica» in particolare) si è discretamente rotta le balle. È il paradosso di Ingroia: è la classica goccia che ha fatto debordare un vaso - la stessa magistratura - che pure aveva pure debordato per decenni.  

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