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Travaglio rinviail duello tv con Grassoma con l'ex pm ha già perso

Matteo Legnani
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di Filippo Facci L'antefatto è noto: il presidente del Senato, giovedì sera, ha telefonato a Servizio Pubblico (La7) per reclamare la possibilità catodica di difendersi dalle «accuse infamanti» del solito Travaglio, al che Michele Santoro ha colto l'occasione e lo ha invitato alla prossima puntata di Servizio pubblico. Il problema è che una settimana è lunga: «Non posso aspettare tanto», ha risposto Grasso, «inviterò io Travaglio in un luogo televisivo prima che passino sette giorni, certe cose vanno fatte subito, Travaglio si abitui al confronto». L'invito del caso, ieri mattina, è arrivato via Twitter da Corrado Formigli, conduttore di Piazza Pulita: e Grasso lo ha accettato. A lunedì, dunque?  No. Perché Travaglio - d'accordo con Santoro, of course - ha proposto che si faccia solo a Servizio Pubblico, altrimenti «sarebbe come se un giornale scrivesse una cosa e la rettifica uscisse da un'altra parte». Parallelo discutibile, ma pace. Il problema è che Grasso, intanto, aveva già accettato. E poi Santoro ha detto: «Ho contattato il direttore di rete e il direttore del Tg di La7 (Ruffini e Mentana, ndr) per avere la possibilità di realizzare uno speciale ad hoc sabato o domenica, ma il presidente ha fatto sapere di essere impegnato fino a lunedì».  Morale? Il duello si farà - the show must go on - e lo guarderà un sacco di gente che non ci capirà una parola, ma sarà solo la schiuma di uno scontro molto più vecchio e, soprattutto, già risolto con una clamorosa capitolazione di Travaglio e company. Ma vediamo di spiegarci.  La spiegazione mignon è questa: Travaglio è sodale di Ingroia & Caselli, nemici storici di Grasso, e questo spiega tutto, fine. La spiegazione più ordinaria in vece è quest'altra: Travaglio è, notoriamente, il doberman  di quell'antimafia piagnens che a partire dal 1993 ha avuto i vertici nei cosiddetti «caselliani» (fissati in particolare con Andreotti, Mannino, Carnevale, Contrada, Dell'Utri, Berlusconi, ecc.) e ha sempre avversato colleghi più moderati come lo stesso Grasso o Giuseppe Pignatone, ora procuratore capo a Roma e altro nemico storico di Ingroia; non migliorò certo le cose che Grasso, nel 2005, «scippò» a Caselli la nomina a procuratore nazionale antimafia.  Ora la spiegazione magnum: la scelta del Pd di respingere al mittente ogni avance politica di Antonio Ingroia, preferendogli Pietro Grasso, non è stata indolore; tantomeno lo è stata la decisione del Pd di difendere Giorgio Napolitano quando il contrasto procedurale tra la procura di Palermo e il Quirinale si fece dirompente per la nota questione delle intercettazioni. L'esito, per ora, è che Pietro Grasso (detto Piero) è stato eletto ed è già presidente del Senato, col rischio che diventasse addirittura premier se non lo fosse divenuto Bersani; Ingroia invece non è neppure stato eletto, la sua Rivoluzione civile ha fatto un bagno e lui rischia di trasferirsi ad Aosta, a processare i clan della Fontina.  Il veleno di Travaglio contro Grasso, dunque, è roba vecchia ma anche freschissima. È il fiele degli sconfitti, ma nondimeno - sprechiamo l'espressione - una resa dei conti culturale.   Il problema è che attaccare Grasso è complicato. Non è un caso che Travaglio - che giovedì sera non leggeva, e infatti ha fatto un po' di casino - ha dovuto ricorrere a tecniche indirette, allusive, suggestive, evocazioni velate che rappresentano il peggio del suo giornalismo: «Grasso non è quello che molti grillini credono... prima di essere magistrato, è un italiano, è molto furbo, è un uomo di mondo, ha saputo gestirsi molto bene, non ha mai pagato le conseguenze di un'indagine». Parole che, a guardare bene, significano nulla. Ma poi: «Grasso si è sempre tenuto a debita distanza dalle indagini sulla mafia e la politica, si è addirittura liberato quando era procuratore di Palermo di tutti i magistrati che facevano indagini su mafia e politica, si è reso protagonista di alcuni gesti poco nobili, come rifiutarsi di firmare l'atto di appello contro l'assoluzione in primo grado di Andreotti, lasciando soli i sostituti procuratori che avevano presentato questo appello».  Qui le dolose semplificazioni travagliesche sfiorano la diffamazione e stanno a significare, meramente, che Grasso riorganizzò gli uffici e mise uomini a lui graditi laddove Caselli aveva messo i suoi. Il resto sono parziali bugie - le condanne più pesanti, come quella a Totò Cuffaro, si devono Grasso - mentre è verissimo che non firmò l'Appello contro Andreotti, che infatti finì sappiamo come. Il resto è critica per associazione: «Grasso ha fatto dichiarazioni in cui prendeva le distanze da Caselli, ha ottenuto applausi dal centrodestra, l'altro giorno Berlusconi ha detto che Grasso è tutt'altro che un brutto candidato alla presidenza del Senato... Grasso ha proposto Berlusconi per la medaglia antimafia» Infine c'è la questione bruciante della nomina a procuratore nazionale antimafia. Il terzo governo Berlusconi, con un emendamento alla Riforma Castelli, mise fuori gioco Caselli per sopraggiunti limiti di età. Fu eletto Grasso e solo successivamente la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l'emendamento che aveva escluso Caselli. Non è chiaro - atteso un dibattito televisivo sul tema - quale sia in ciò la colpa di Grasso, peraltro autorizzato dal Csm che diede via libera alla sua nomina con 18 voti a favore e cinque astensioni. Sì, è complicato sputtanare Grasso coi soliti metodi. Ha 43 anni di carriera, era già magistrato a 24 anni (cosiddetto giudice ragazzino) e si ritrovò subito a rischiare la pelle nel giudicare il maxiprocesso a Cosa Nostra: 400 boss in un dibattimento istruito dal pool di Falcone e Borsellino. Fu consulente della commissione Antimafia del comunista Gerardo Chiaromonte (quando la commissione serviva a qualcosa) e fu vicecapo di gabinetto agli Affari penali ancora con Falcone, prima di essere candidato dal guardasigilli Claudio Martelli per quella procura palermitana che invece fu occupata da Caselli. Poi andò a sostituirlo e a rappresentare appunto una netta discontinuità con Caselli e i vari Ingroia di complemento. Fece fuori i pm caselliani uno alla volta, ripescò Pignatone come suo vice (così popolare, tra i caselliani, come può esserlo uno che mandò ad arrestare i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato) e diede pubblicamente del «disinformatore» a Marco Travaglio e implicitamente al suo grande ispiratore, facendo capire che di certi teoremi su mafia & politica non voleva sentir parlare. In occasione dell'inchiesta su Salvatore Cuffaro, per esempio, Ingroia voleva imputargli il concorso esterno in associazione mafiosa; mentre Grasso, capo della Procura, propose il favoreggiamento come arma vincente. Ebbe ragione lui, com'è noto.  Sull'ambiguità di Grasso, detto questo, si può travagliare a iosa. In effetti no, non si è mai mosso in un'unica direzione. Nel maggio 2010 dichiarò che la mafia aveva «inteso agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»: e in molti vi lessero un riferimento a Forza Italia. Poco tempo dopo dichiarò che il centrodestra aveva introdotto leggi eccellenti sulla mafia e che il governo Berlusconi era da premio. Aggiunse pure che Ingroia «fa politica utilizzando la sua funzione. È sbagliato, ma per la politica è tagliato». Aveva ragione, ma figurarsi il Travaglio del giorno dopo: «Ingroia è uno dei pm che indagano sulle trattative Stato-mafia, che quando Grasso era procuratore a Palermo erano tabù, e che coinvolsero anche la Banda Berlusconi». Subdolo come suo solito. Persino Massimo Ciancimino, ex cocco di Ingroia e Travaglio, tentò di sputtanare Grasso: e in effetti mancava. Non c'è riuscito Ciancimino e non c'è riuscito nessuno. Non ci riuscirà Travaglio.

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