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Franco Bechis: "Sono come Concita De Gregorio. Ma tutti se ne fregano"

Nicoletta Orlandi Posti
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Chiedo scusa se parlo di me. Non mi piace farlo: infatti non ho detto una parola in questi anni. Leggendo però le disavventure di Concita De Gregorio e dei colleghi dell'Unità, e la mobilitazione è nata nel sindacato dei giornalisti e perfino nel mondo politico, mi è scappato un timido “Ah, però...”. Mi spiace che a Concita e ai suoi colleghi abbiano pignorato il 20% dello stipendio per le cause intentate quando lei dirigeva l'Unità. Conosco bene il tema: da quasi sei anni sono a Libero, e di questi ne ho passati 5 con un quinto dello stipendio pignorato per lo stesso motivo. Anche peggio: per un certo periodo ho avuto pure il conto bancario- il solo che ho, e su cui corre lo stipendio- pignorato. Ho raccontato quel che stava accadendo a colleghi e sindacalisti della Federazione nazionale della stampa. Ho raccolto molti “Mi spiace”, altri “Però...”, qualche timido: “ah, non sapevo...”, e sotto-sotto valanghe di “eh... un po' te la sei cercata, sei sempre così aggressivo con tutti...”. Sono abituato a combattere da quando ho iniziato a fare il giornalista, e non sono mancate occasioni in tribunale. Mi difendo, perché se scrivo prima mi documento, e in una causa penale cerco di portare materiale a sostegno di quel che è stato pubblicato. Poi come tutti posso fare errori: inutile ritenersi infallibili. Ho imparato in tanti anni che un processo è come un terno al lotto: contano i fatti in sé, ma anche le opinioni che si formano i magistrati che ti debbono giudicare, la bravura degli avvocati che ti assistono, le capacità dell'imputato di raccontare come teste il lavoro fatto, e talvolta i pregiudizi verso la testata per cui lavori. Da imputato potrei dire di essere stato condannato ingiustamente, e vale quel che vale: tutti i colpevoli si sentono sempre innocenti. Ma sono anche stato assolto quando invece ero colpevole: aveva ragione chi mi aveva querelato, ma ha indispettito la corte con l'atteggiamento tenuto nel processo. In un caso un teste a mio favore si è impappinato, è andata a farsi benedire la mia carta decisiva. Risultato: condanna di primo grado, pena minima: 500 euro. Mi sono detto: ricorrerò in appello. E invece era stata fatta una legge che diceva: se in primo grado sei condannato solo a una multa o ammenda, non è ammesso ricorso. Pensavano di togliere un po' di carico ai tribunali. Rientravo nella legge: nessun appello possibile, condanna definitiva. La legge resta in vigore 20 giorni, perché i giornalisti insorgono: l'80% delle querele si chiude con multa o ammenda, in quel modo addio giusto processo. Resto il solo giornalista italiano che ci finisce impigliato, e mi tocca pagare non solo i 500 euro, ma pure i 10 mila euro stabiliti per la parte civile. Nessuno spreca una parola, manco per dire : “che sfigato!”. Mi hanno pignorato lo stipendio sia per quel che ho scritto sia per essere stato direttore di testata. La legge dice che si è responsabili in solido giornalista che scrive, direttore responsabile ed editore. Mi hanno pignorato tre volte lo stipendio e uno il conto bancario sia come direttore che come giornalista. In tutti i casi chi ha vinto (causa civile con provvisionale di primo grado) è venuto a chiedermi tutta la somma. Non hanno nemmeno provato a chiederla agli editori, le cui società erano vive e vegete. Da lì in poi cavoli miei. Infatti mi sono dovuto arrangiare : qualcosa (molto) ho pagato, ho cercato trattative con i vecchi editori e con chi mi aveva querelato, qualcosa (poco) ho recuperato. Nessuno mi ha dato una mano, per la Fnsi il caso non è esistito: affari miei. Non una parola dai presidenti delle due Camere, Piero Grasso e Laura Boldrini ora scandalizzati per le querele ai colleghi dell'Unità. Li capisco: chi è venuto a pignorare lo stipendio solo a me, ignorando qualsiasi altro soggetto solidale, si chiama Nichi Vendola, leader del partito che ha candidato la Boldrini. Chi ha fatto la stessa cosa pignorando il mio conto bancario si chiama Giovanna Melandri, già dirigente e ministro di quel Pd che ha portato in Senato Grasso. Così va la vita... di Franco Bechis

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