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Donne, film, capolavori: cento anni di Orson Welles

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Matteo Legnani
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Cento anni fa (6 maggio 1915) a Yenosha nasceva Orson Welles.  Quasi cento anni fa (ottobre 1985) a Los Angeles Welles moriva. Il cinema l'aveva dimenticato da un pezzo, gli spettatori di cinema no. Stasera a Roma nella sala Trevi proiettano il Macbeth e l'Otello. Ma da qui a ottobre le celebrazioni da una parte all'altra dell'Atlantico si sprecheranno. Come è giusto. Perchè se come regista Orson fu in realtà grandissimo solo una volta (col film d'esordio Quarto potere ovvero Citizen Kane) come personaggio rimane uno dei grandi del XX secolo. Tanto grande che nessuna delle sue moltissime biografie riesce a contenerlo tutto. Tanto esplosivo e contraddittorio (dove finiva il genio e dove cominciava il cialtrone?) da mettere in difficoltà qualsiasi studioso. Come attore fu spesso sublime e altrettanto spesso gigione. Si professava politicamente liberal anzi radical eppure non mancava mai di rovesciare un'evidente simpatia sui suoi personaggi di tiranni assassini (Mr Arkadin e Harry Lime, Cesare Borgia e l'infernale Quinlan). Amò donne meravigliose (Rita Hayworth, Lea Padovani) e ne disse nelle sue rievocazioni tutto il male possibile. Alimentò la leggenda -vera, ma lui sistematicamente la gonfiava. dei film che non era riuscito a fare per la miopia dei produttori (Il cuore di tenebra, l'eterna opera incompiuta Don Chisciotte) ma dall'unico incontro che ebbi con lui ricavai l'idea che le opere rimasero tronche per volontà -o per panico- suo. L'incontro avvenne mi pare nel 1984 un anno prima della morte. Ero al festival di Cannes e passando davanti al Carlton vidi - non potevo fare a meno di vederlo - Orson troneggiare sulla terrazza dell'Hotel. Troneggiava e basta, ma non avrei osato avvicinarlo, se un fotografo non mi avesse praticamente spinto addosso al monumento. «Vai sta tranquillo, è una pasta d'uomo». Difatti fu una pasta, disponibilissimo, trattenendo quasi ogni sguardo ironico di fronte alle mie domande del cavolo. Da dodici anni non dirigeva film, e le sue ultime «partecipazioni» come attore erano evidenti marchette. Che ci faceva a Cannes? «Vado al cinema, vedo tanti film. Ma quelli al “Marchè” dove danno i gialli e gli horror. No, non vado a vedere il concorso. Troppo spesso danno opere dirette e interpretate da cani. Poi magari prendono la Palma d'oro. E io allora m'incazzo». Disse proprio così, in una conversazione tenuta in ottimo italiano. «Incazzo? L'ho imparato alla fine degli anni 40 quando avevo un'amante italiana. Le do un consiglio se vuole imparare una lingua straniera, vada a letto con una straniera». La situazione aveva preso una buona piega, e ne approfittai per rivolgergli la solita domanda da cinephile bamba. Quand'è che avremmo visto il suo vero Don Chisciotte e non l'edizione a brandelli che da anni circolava nelle cineteche. «Mai. Se volessi finirlo, non avrei troppe difficoltà. I soldi si trovano, basta fare tre o quattro film in Spagna o in Inghilterra. Ma non voglio, mi viene il panico, ho la sensazione che se lo terminassi terminerebbe anche la mia vita». Un anno e mezzo dopo la sua vita terminava davvero. E senza aver finito il Quixote. Quando l'Ansa battè la notizia della morte, mi sembrò una beffa della vita, una di quelle brutte imboscate che l'esistenza prepara per i grandi quando possono ancora volare a grandi altezze. Mi sbagliavo. La vita aveva dato tutto a Orson. Solo, troppo presto. A 23 anni aveva terrorizzato l'America colla sua trasmissione sui marziani, a 25 era riuscito a dirigere il più bel film della storia del cinema, Quarto potere. A 26 si era trovata nel letto Rita Hayworth. Cosa poteva fare dopo se non sopravvivere? A Welles poteva toccare un destino come quello di Hemingway o Jack London (spararsi o annegarsi). Scelse di «chiudere» come un vecchio saggio, che nella vita ha visto tutto, ma ha ancora voglia di incazzarsi. E di sognare un altro Citizen Kane. di Giorgio Carbone

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