Giuliano Amato, le sette vite: da "Dottor Sottile" a "Cobra"
Puntualmente, si parla di Giuliano Amato al Quirinale. Un nome che spunta sempre quando è vacante una poltrona. Non è mai il primo a essere fatto, ma è immancabile. Amato era già stato in lizza nel 1999 e nel 2006. A volerlo al posto di Carlo Azeglio Ciampi, fu nientemeno che Papa Wojtyla. Sette anni dopo, fu il Cav a candidarlo per il centrodestra nel tentativo di bloccare Giorgio Napolitano. In entrambi i casi, Amato fu sconfitto senza fare una piega e continuò a navigare. Il personaggio è di sette vite. Da quand'è scomparso il Psi, in cui fece carriera sotto l'ala di Bettino Craxi, Giuliano ha dovuto arrangiarsi da solo. Per avere una casa, è passato al Pds-Ds-Pd, il nemico che aveva annientato il suo benefattore, e trovò in Max D'Alema il nuovo padrino. Ha presto capito che era però più vantaggioso fare da sé, barcamenandosi. Non è qui il caso di analizzare tutte le sue tecniche di sopravvivenza. Ci vorrebbe un volume. Basterà dire che ha stinto i suoi colori, diventando versipelle. Pur restando a sinistra, ha strizzato l'occhio ai cattolici, si è mostrato comprensivo col Berlusca, ha dato una mano alla destra collaborando con Gianni Alemanno sindaco di Roma. Di qui, le simpatie sparse che si è conquistato. Compensate dalle diffuse diffidenze per questo volteggiare tra gli opposti. Amato ha avuto un cursus impareggiabile. A volte è in auge, altre in ombra ma sempre in possesso di una poltrona, grande o piccola che sia. L'importante per lui è sedere su qualcosa. È il tappabuchi per eccellenza. Ma un tappabuchi di lusso perché può ricoprire qualsiasi ruolo avendo eccelsa competenza nelle cose dello Stato. È l'uomo delle emergenze, il commissario straordinario che si chiama al capezzale di un organismo in coma. Conclusione: nessuno può vantare un curriculum di pari varietà. È stato premier (due volte, 1992 e 2000), ministro del Tesoro e dell'Interno - ossia economista e poliziotto -, ha ricoperto una carica internazionale coi fiocchi quale vicepresidente della Convenzione che ha varato la Costituzione Ue. Dal 2013, è giudice della Consulta, un posto che nessun politico di calibro ha mai occupato, mancando di una preparazione giuridica paragonabile alla sua. Va infatti aggiunto che, salito prestissimo alla cattedra di Diritto Pubblico, Giuliano è stato, per unanime riconoscimento, il costituzionalista principe della sua generazione. Consapevole di sé, il settantantaseienne Amato reagisce con grinta agli attacchi dei giornali. Non potendolo più beccare sulla politica dalla quale è fuori -ultimo ruolo: ministro dell'Interno di Prodi (2006-2008)-, lo hanno recentemente punzecchiato per l'enormità della pensione. Come ex parlamentare (cinque legislature) riceve novemila euro mensili, più altri ventiduemila tra vitalizio di ex docente e l'indennità di ex presidente dell'Antitrust (è stato anche questo, me ne ero dimenticato!). Un totale di 31mila euro lordi al mese, più di mille al giorno, l'ideale per suscitare l'ira popolare. Stufo di essere preso di mira, Amato ha precisato di tenere per sé solo i ventiduemila euro -che netti sono la metà- e di dare ai poveri i novemila di ex parlamentare. Poi, in una lettera al Corsera, si è difeso con una prosa deamicisiana, intrisa di ideali socialisti e orgoglio individualista. «Io -scrive- nella mia vita mi sono fatto largo con le mie qualità. Non avevo alle spalle una famiglia altolocata, mio nonno era muratore, mia madre aveva fatto le elementari, mio padre (esattore di Agrigento, ndr) era diplomato». Spiega come sia emerso senza protezioni lavorando il doppio (se ad altri, raccomandati, bastava un libro per salire in cattedra, a lui toccava scriverne due), fino a sfondare. E, giunto al termine della sua arringa, chiede: «Un curriculum così va additato ai giovani come esempio da non seguire o, invece, come modello di mobilità sociale per chi non ha vantaggi di partenza?». Perfetto e, per come conosco Amato, la cosa più onesta che sia uscita dal suo cervello contorto più dell'aspide che avvelenò Cleopatra. Infatti, all'origine dei suoi successi non ci sono solo le capacità. La sua strada è costellata anche di inquietanti bugie e odiosi voltafaccia. Ripercorriamoli. Quando fu premier la prima volta dichiarò: «Con questo concludo la mia carriera politica. Non pretendo di essere il protagonista di molte stagioni». Oggi, ventitre anni e cinquanta incarichi dopo, stiamo ancora parlando di lui. Poi si mise all'opera e ci scippò nottetempo i soldi dai conti correnti bancari il 10 luglio 1992. Una randellata sul rapporto di fiducia tra cittadino e stato. Nel settembre successivo la lira ebbe una tremenda svalutazione sul dollaro. Amato la negò definendola un semplice «riallineamento». Un mese dopo, spalle al muro per le polemiche, ammise di «avere mentito agli italiani». Più indicativa la sua storia con Craxi. Prima che Bettino diventasse segretario nel '76, lo osteggiò da sinistra (Giuliano militò anche nel Psiup). Quando poi i craxiani vinsero, scrisse ai suoi amici Stefano Rodotà e Franco Bassanini: «Piuttosto che fare politica con questi cravattari sarebbe meglio ritirarsi a vita privata. Noi invece non ci ritireremo». Infatti, dopo un anno era già prostrato ai piedi di Bettino di cui fu per un quindicennio il caudatario, condividendone le tresche al governo e nel Psi. Quando Craxi fu soprannominato Ghino di Tacco, Amato fu detto Ghino del taschino per sottolinearne la soggezione. Il nomignolo si aggiunse a quello di Dottor Sottile che si era guadagnato per l'abilità manovriera e l'acume spaccacapello di cui era dotato. Quando poi, con Tangentopoli, voltò le spalle a Craxi con la frase «non immaginavo tanto marciume» (lui che sapeva tutto), fu detto il Cobra. Durante il ritiro forzato di Bettino ad Hammamet, Giuliano non gli fece mai visita. Quando Craxi morì nel Duemila, Amato, che era ministro del Tesoro di D'Alema, si guardò bene dall'andare al funerale. Gli aveva però scritto una lettera alla vigilia in cui garantiva che si stava battendo per ottenergli il salvacondotto per l'Italia. Craxi, morente all'ospedale militare di Tunisi, la lesse e disse: «Scrive bene, ma non dice nulla. Alla fine, è quello che si è comportato peggio». Il Nostro, infine, per continuare a farsi vezzeggiare dal circolo di Repubblica (Eugenio Scalfari è tra i suoi fan per il Colle, con Napolitano e il Cav), favorì Carlo De Benedetti. La storia è questa. Negli anni '90, le Ferrovie di Lorenzo Necci avevano stipulato con Telecom la cessione delle rete telefonica ferroviaria per 1100 miliardi in contanti. Amato, allora all'Antitrust, bloccò l'operazione con la scusa della posizione dominante di Telecom e impose al suo posto De Benedetti. Costui fece un'offerta nel suo stile: 750 miliardi (350 meno di Telecom) in quattordici anni. Un bidone che le Ferrovie trangugiarono per non guastare gli altarini del potente politico e farselo nemico. Lo vogliamo davvero al Quirinale, oppressi come siamo dai buffi dello Stato, chi ha contribuito a moltiplicarli? di Giancarlo Perna