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Fausto Bertinotti, comunista pentito: "Abbiamo sbagliato tutto"

Andrea Tempestini
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Il comunismo? «Ha fallito». La cultura politica da cui si deve ripartire? «Quella liberale, che ha difeso i diritti dell'individuo». Il gesto più rivoluzionario di questi anni? «Le dimissioni da Papa di Joseph Ratzinger». L'unica delle tre grandi culture del Novecento che è in vita oggi? «Quella cattolica, che è stata rivitalizzata da papa Francesco che si sta guadagnando consenso e attenzione di mondi lontani». Parole clamorose, perché a pronunciarle è l'ultimo dei Mohicani della vecchia sinistra italiana: Fausto Bertinotti, il leader di quella che è stata Rifondazione comunista. Un discorso-choc quello che l'ex presidente della Camera ha pronunciato a Todi il 29 agosto scorso, che in qualche modo segna il vero cambiamento epocale della politica italiana, la chiusura definitiva di quella che è stata la prima Repubblica. Bertinotti ha raccontato che il mondo è effettivamente cambiato in modo così sorprendente da abbattere qualsiasi tentazione di nostalgia. «Noi tutti siamo con un piede in un mondo che conosciamo e con un piede in un mondo che fuoriesce totalmente dal nostro quadro di conoscenze», ha premesso l'ex leader rosso. E ha raccontato un episodio per rendere l'idea: «L'altra sera stavo con alcuni dei migliori studiosi e scienziati italiani e con qualche brivido ho sentito dire che beh, insomma, non è ormai così fuori dalla portata potere progettare un essere umano e stabilire se debba avere occhi azzurri piuttosto che scuri con una taglia piuttosto che un'altra. Insomma, grosso modo come si comprerebbe un vestito...». Una trasformazione radicale, quindi, che secondo Bertinotti «chiede una rifondazione delle grandi visioni del mondo. La sinistra che io ho conosciuto, quella della lotta per l'eguaglianza degli uomini, quella che chiedeva ai proletari di tutto il mondo di unirsi, è finita con una sconfitta. Io appartenevo a questo mondo. Questo mondo è stato sconfitto dalla falsificazione della sua tesi (l'Unione sovietica) e da un cambiamento della scena del mondo che possiamo chiamare globalizzazione e capitalismo finanziario globale». E qui la scelta di campo che non ti saresti aspettato dall'ex segretario di Rifondazione comunista: «Io penso che la cultura liberale- che è stata attenta più di me e della mia cultura all'individuo, alla difesa dei diritti dell'individuo e della persona contro il potere economico e contro lo Stato - è oggi indispensabile per intraprendere il nuovo cammino di liberazione». Bertinotti si è reso conto di q uel che stava dicendo: «Faccio fatica a dirlo. Ma io appartengo a una cultura che ha pensato che si potessero comprimere- almeno per un certo periodo- i diritti individuali in nome di una causa di liberazione. Abbiamo pensato che se per un certo periodo era necessario mettere la mordacchia al dissenso, eh, beh... ragazzi, c'era la rivoluzione». Ecco l'auto-accusa terribile: «La mia storia ha pensato che si potesse comprimere le libertà personali. L'intellettualità europea fra il 1945 e il 1950 è stata tutta comunista. Jean Paul Satre, Andrè Gide, Albert Camus per parlare dei francesi. In Italia tutti, proprio tutti: i registi del neorealismo, i principali cattedratici italiani, i grandi scrittori, le case editrici. Erano tutti comunisti. E adesso non mi dite per favore che non si sapeva niente di cosa accadeva in Unione Sovietica, e che bisognava attendere il 1956 o Praga!». E anche questo è un racconto della storia di Italia che non è mai stato fatto nemmeno dai post-comunisti. Dopo questo lavacro purificatore, il nuovo battesimo bertinottiano: «Io penso che la cultura liberale ha in maniera feconda scoperto prima, poi difeso e rivalutato il diritto individuale come incomprimibile. Se io oggi dovessi riprendere il mio cammino politico vorrei mettere nel mio bagaglio oltre a quel che c'è di meglio della mia tradizione, sia pure rivisitata molto criticamente, ma soprattutto ciò che viene portato dalla tradizione liberale e da quella cattolica». Era serata di grandi rivisitazioni, e non è sfuggito nemmeno qualcosa di più stretta attualità: nemmeno il sindacato è sfuggito al piccone di Bertinotti, che pure è stato una vita dirigente della Cgil: «ll sindacato in Italia ha subito una mutazione genetica», ha spiegato l'ex presidente della Camera. «È diventato un pezzo dello Stato sociale. Da 20 anni ormai ha smesso di avere una capacità rivendicativa autonoma, e si è messo a sedere ai tavoli di concertazione con governo e imprenditori». Bertinotti ha fatto un esempio pratico e assai illuminante dei risultati di questa scelta sindacale: «Nel 1975 i salari italiani erano i più alti di Europa. Più alti di quelli che c'erano in Germania: un operaio di Mirafiori prendeva di più di un operaio della Volskwagen, e la Fiat faceva 2 milioni di automobili. Oggi i salari italiani sono fra i più bassi di Europa. Qualcosa evidentemente non ha funzionato, e il sindacato è parte di questo qualcosa. Ha scelto sempre il male minore. Ma soprattutto ha scambiato la difesa dei lavoratori con un riconoscimento crescente del suo ruolo istituzionale. Hanno fatto meno contratti e sono andati più volte a palazzo Chigi». E ora Cgil e compagnia sono destinati a scomparire: « Ora arriva Matteo Renzi», ha chiosato il suo intervento Bertinotti, «che ti cancella e il sindacato non ha più armi per difendersi. Perché nel frattempo sono i lavoratori a non riconoscerti più come prima. Avresti dovuto rinunciare tu al sovrappiù di permessi sindacali nel pubblico impiego, non fartelo imporre. Un sindacato così è un sindacato disarmato, che prima o poi si fa irretire nella rete del potere». di Franco Bechis

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