Fini non conosce la Costituzione:vara la norma anti-Gianfrancoe segna un clamoroso autogol
Il presidente della Camera annuncia: "Chi si candida con noi firma un impegno a non cambiare casacca". Ma così dimostra di ignorare la Carta, che vieta il vincolo di mandato
di Fausto Carioti Gianfranco Fini si è convertito a Marx. Nel senso di Groucho Marx, quello che diceva: «Non farei mai parte di un club che accetta persone come me». Ecco, la notiziola di ieri è che Fini non intende fare parte di un partito che accetta persone come lui. E in fondo c'è da capirlo: esistono compagnie migliori della sua. Sicuramente più affidabili. Per impedire che individui come lui - tipi capaci di abbandonare il partito in cui stanno, fondare un gruppo parlamentare a metà della legislatura e passare sulla sponda opposta - allignino malignamente nelle schiere neocentriste capitanate da Mario Monti, Fini ieri ha annunciato con orgoglio al Gr Parlamento quella che dai mattacchioni di Montecitorio è stata subito ribattezzata clausola anti-Fini: «Coloro che saranno candidati nelle liste di Udc, Fli e la lista unica di Monti, si impegneranno firmando un documento d'intenti a costruire un gruppo unico sia alla Camera sia al Senato e a non cambiare casacca nel corso della legislatura». Uscita lodevole, se non altro perché ha regalato una facile risata a tanti deputati vittime della depressione da fine legislatura (facendo diventare spiritosa persino Daniela Santanché: «In vita sua Fini ha cambiato così tante casacche che non basterebbe un guardaroba per contenerle»). Presidente smemorato Dalla sortita di Fini si apprendono due cose. La prima è che il presidente della Camera si è scordato di cosa prevede la Costituzione all'articolo 67, quello in cui si legge che ogni parlamentare «esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», e quindi figuriamoci se puoi imporgli l'appartenenza a un gruppo: quel «documento d'intenti», se mai ci sarà, avrà da subito il valore della carta straccia. Deve essere un caso di analfabetismo di ritorno, perché sino a qualche tempo fa quelle parole Fini e i suoi le ricordavano bene e le ripetevano spesso. Almeno ogni volta che faceva comodo. Ad esempio quando Silvio Berlusconi, nell'agosto del 2010, provò a inchiodare i finiani, che avevano appena formato un proprio gruppo, a un documento basato sul programma di governo in nome del quale erano stati eletti. Giammai, avvisò Italo Bocchino: «La logica del “prendere o lasciare” non appartiene alla politica, ma al commercio. Il capo del governo non può coartare la libertà del singolo parlamentare che, come recita la Costituzione, opera senza vincolo di mandato». E quando Pdl e Lega, consumata la rottura con Fli e scoperto ciò che era avvenuto alla casa di Montecarlo, gli chiesero di dimettersi dalla presidenza della Camera per aver violato il patto con elettori e alleati, lo stesso Fini rispose che una simile proposta era da «analfabeti del diritto costituzionale: non si chiedono le dimissioni del presidente della Camera e del Senato», che risponde solo alla propria coscienza. Parole ineccepibili, Costituzione alla mano. Ma inconciliabili con la clausola sbandierata ieri, che la libertà di mandato e di coscienza del parlamentare la usa per lucidare i braccioli della poltrona di Monti. Non fare a me....La seconda cosa che pare emergere dalle parole di Fini è che l'ex leader di An non vuole che altri facciano a lui quello che lui ha fatto a Berlusconi. E anche qui c'è da capirlo, visto che il suo strappo non ha affondato, ma azzoppato sì, il governo del Cavaliere. Però il più traumatizzato dall'evento sembra proprio il sessantunenne bolognese, che ancora ieri mostrava di non aver metabolizzato bene il proprio gesto. Prima, intervistato su Repubblica, ha attribuito alla propria decisione di rompere con Berlusconi il merito della caduta del Cavaliere: «In politica la gratitudine non esiste, ma se oggi c'è Monti è perché qualcuno si è assunto l'onere di svelare che il Re era nudo». Dal che si capisce che Fini pretenda di essere ringraziato. Poi, nell'intervista al Gr Parlamento, forse perché conciliare il proprio curriculum con la clausola anti-voltagabbana gli risultava problematico, ha rispolverato la tesi del martire: «Io non me ne sono andato dal Pdl, sono stato espulso». E allora, se è stato il soggetto passivo di una decisione altrui, non si comprende per quale motivo gli si dovrebbe rendere gratitudine. Ma sono domande troppo complicate per uno che, dopo trent'anni in Parlamento, si trova in condizioni politiche tanto precarie. Un po' di riposo non gli farebbe male. Chissà che il 24 febbraio non sia la volta buona.