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Tutte le vergogne della sua Olivetti:"Libero" le ricorda a De Benedetti

Carlo De Benedetti

L'editore di "Repubblica" si dice orgoglioso di quell'azienda, ma dimentica mazzette e salvagenti di Stato. Oltre al suo passato socialista...

Andrea Tempestini
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  di Franco Bechis Il passo d'addio è accompagnato sempre da una certa retorica, e figurarsi se non doveva accadere  anche per Carlo De Benedetti e il suo annuncio di mezzo ritiro dalla scena. Lui a dire il vero aveva già annunciato nel 2009 una pensione dorata, abbandonando tutte le cariche del gruppo salvo la presidenza dell'Espresso. Nella sostanza non cambia nulla rispetto ad allora, salvo l'utilizzo della legge sulla successione per trasferire ai figli le sue quote nella holding di famiglia, la Carlo De Benedetti & c. Un asse ereditario risolto in anticipo per non fare litigare la prole sul testamento, che gli assicura ancora il generoso stipendio da amministratore unico di Romed (2,5 milioni di euro l'anno) e la guida del gruppo editoriale che ha dentro Repubblica, i quotidiani locali di Finegil, le attività radiofoniche e televisive e il settimanale Espresso. Tanto è bastato per dedicare ieri sul quotidiano degli industriali italiani un'ampia intervista all'Ingegnere che annuncia «Ora farò l'editore puro». EDITORE PURO A parte l'atipicità di un editore puro che continua ad essere il capo di una famiglia con interessi nell'energia, nella finanza, nella ristorazione, nella componentistica auto, nella sanità e decine di altri settori, l'intervista al Sole 24 Ore ieri è stata l'occasione per ripercorrere fra effluvi di incenso la sua carriera di imprenditore. Come tanti altri grandi imprenditori (un difetto in comune col nemico di una vita, Silvio Berlusconi) De Benedetti gode di altissima autostima. E ha qualche difficoltà ad individuare errori compiuti in vita. Gli scappa un'ammissione sulla celebre scalata alla cassaforte del Belgio, la Sgb (che fallì ed è un fatto incontrovertibile), ma subito si corregge: «Il mio fu un errore di esecuzione, non di intuizione». Vale a dire: l'idea della scalata era stata sua, formidabile. La scalata in sé fu tentata dai suoi uomini, e furono loro a fallire: «Purtroppo nella sua finalizzazione l'operazione fu gestita male. E ne abbiamo subito le conseguenze». A una certa età la memoria ha maglie più larghe, vale per tutti. Così l'ingegnere non si ricorda più da quali labbra sfuggì l'arrogante annuncio ai belgi: «La ricreazione è finita», che fece irritare tutti e naufragare l'intera operazione. Erano proprio le sue labbra. Ma i vuoti di memoria più terribili debbono avere accompagnato la non felicissima storia di De Benedetti nell'Olivetti. Non felicissima, perché grazie a quell'azienda fu indagato a Milano dal pool mani pulite, poi inseguito proprio diciannove anni fa durante il ponte dei Santi da un mandato di cattura. Infine pure arrestato (il processo fu lentissimo, e insieme ad altri fu infine prosciolto nel 2003 anche perché i fatti erano ormai prescritti). Al Sole 24 ore De Benedetti ha raccontato quel che si ricorda dell'Olivetti. Bei ricordi, come capita il giorno della pensione: «Una storia che rivendico con orgoglio. L'ho salvata da una morte che ha interessato tutti i nostri competitor di allora (…) Con Olivetti ho trasformato una fabbrica di macchine da scrivere in uno dei maggiori produttori di computer mondiali e poi in un grande operatore di telefonia mobile che rompeva un monopolio…». Poi se è finita male (ed è finita malissimo, con il marchio che ogni tanto risorge provoca altre disavventure e come la Fenice risorge ancora passando di mano in mano), naturalmente la responsabilità è altrui.  Basterebbe un po' di memoria però per raccontare la storia giusta, forse poco adatta al passo d'addio, ma almeno vera. Quello di Olivetti in mano all'Ingegnere non fu straordinario successo imprenditoriale. Fu in realtà un calvario non diverso da quello affrontato dai competitori internazionali e anche dalle grandi imprese italiane in anni di crisi industriale come fu la prima metà degli anni Ottanta. Basta consultare gli archivi digitali per scoprire che il termine più volte associato ad Olivetti dal 1980 al 1994 fu «cassa integrazione», non certo un simbolo di grande successo. Non fu l'imprenditore, fu la politica a tenere in piedi quell'azienda. Sempre e comunque. Perché rappresentava un problema sociale, e perché De Benedetti chiedeva e pagava - come si faceva all'epoca - la politica per reggere la baracca. Lo ammise lui stesso - presentandosi naturalmente come vittima - davanti al pool Mani pulite che ormai lo aveva pizzicato quindici giorni dopo avere negato tutto di fronte all'assemblea degli azionisti Olivetti.  NEGAZIONE CONTINUA «Non lavorare», scrisse in un suo memoriale, «in particolari specifici settori della pubblica amministrazione italiana diveniva per noi inaccettabile (…). Questa prima fase era caratterizzata da pressioni dei mandatari del Psi e della Dc alle quali rispondevamo respingendo richieste specifiche del “caso per caso”, ma cercando di limitarci a donazioni generiche ai segretari amministrativi non riferite specificatamente a singoli lavori». Poi «subentrò una seconda fase in cui avvenne una sistematica, totale, ineludibile contrattazione da parte dei mandatari dei partiti su tutto quello che potevano controllare senza alcuna eccezione. Così il nostro atteggiamento subì un cambiamento e cioè invertimmo la nostra posizione, respingendo ormai disgustati qualsiasi finanziamento ai partiti, ma subendo di volta in volta i ricatti di loro mandatari su singoli specifici espisodi». Insomma, finì con il pagamento di circa 10 miliardi di lire di tangenti. Concusso per tenere in piedi l'Olivetti.  Negli anni Ottanta l'azienda fu salvata dalla legge che impose i registratori di cassa a tutti i commercianti. Portava la firma di Bruno Visentini, già nel board Olivetti. E il mercato fu diviso da due aziende: l'Olivetti, e la Sweda. Che fu comprata subito dalla stessa Olivetti.  Nel memoriale De Benedetti sostenne di essere ricattato dalla politica che gli chiudeva la commessa delle Poste, aprendo il mercato ad aziende straniere. Pagò e rifornì l'azienda di vecchie telescriventi mai usate. Se ne trova ancora qualcuna nei magazzini di palazzo Chigi, dove costa una fortuna rottamarle. Sempre sotto ricatto dei politici, naturalmente. Anche se nell'archivio di Bettino Craxi e in quello di Giovanni Goria si trovano documenti che racconterebbero un'altra storia. A meno che il ricatto non comportasse cimeli garibaldini generosamente donati dall'Ingegnere a Bettino, o la partecipazione a comizi Psi sulla piazza di Brescia con tanto di garofano all'occhiello (foto dell'archivio Craxi). Finite le commesse inutili, tornarono i cassa integrati. L'Olivetti provò a rifilarne 1500 alla pubblica amministrazione, con una norma varata dall'ultimo governo di Giulio Andreotti. Non passò in parlamento. Ma 414 cassaintegrati Olivetti furono scaricati lo stesso sulle spalle dello Stato. A quel punto l'ingegnere cercò di sfilare Finsiel all'Iri: un contratto per pagare la minoranza e comandare come fosse in maggioranza. Si oppose il socialista Massimo Pini, e l'operazione non riuscì.  LA PROPOSTA Allora l'ingegnere bussò alla porta di Giovanni Goria (nella primavera del 1993), chiedendo una mano per la sua Olivetti pubblica amministrazione. Ci sono lunghi carteggi a testimoniarlo. Olivetti voleva una commessa per realizzare la carta elettronica della Sanità nella Regione Lazio, per poi estenderla in tutta Italia. E aveva proposto perfino una carta elettronica sostitutiva del certificato elettorale per fare votare tutti gli italiani. Goria caldeggiò (e anche qualcosa più) l'Olivetti presso l'amica Maria Pia Garavaglia, ministro della Sanità nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Il colpaccio però non andò in porto. E l'Olivetti sarebbe stata ancora mesi in agonia, fino alla spugna gettata dall'Ingegnere pochi anni dopo. Un'altra storia.  

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